DOCUMENZOGNA DALLA FRONTIERA

DOCUMENZOGNA DALLA FRONTIERA
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Il cinema di Ricardo Silva è provocatorio come uno sputo in faccia. O come una crosta aperta, dice lui. Un cinema che documenti per enunciare una fictionverità socialmente elusa. È questo ibrido che lo colloca in un luogo etico liminale, per non dire scivoloso. Silva lo chiama “etnofiction”: porre parametri prestabiliti (artificiali, fittizi) su una realtà per generare ciò che non era in mente (l’inaspettato, vero).

 

Così va inteso Navajazo, il suo ultimo documentario. Navajazo, dice la sinossi: "Un’apocalisse immaginabile è presentata davanti ai nostri occhi attraverso ritratti di personaggi che lottano per sopravvivere in un ambiente ostile, dove non hanno che se stessi e la sola cosa che hanno in comune è il desiderio di continuare a vivere, costi quel che costi”.

 

Passi continuamente dal documentario alla finzione e viceversa. Hai avuto problemi da questo punto di vista con le persone che appaiono nel tuo lavoro?

I problemi non sembrano mai finire quando ti destreggi in queste circostanze: attori che non vogliono più lavorare con me, minacce e qualche rapina a mano armata. Alcuni di questi problemi nascono perché a volte queste persone non hanno veri lavori fissi. È difficile mettersi d’accordo con loro, e ancora meno ovviamente quando conti su un budget di 2000 dollari per tutto il film. Una volta abbiamo affittato una stanza d’albergo per un casting porno. Era tutto pronto, ma uno dei nostri intervistati aveva nella borsa una grande quantità di metanfetamine. La faccenda si è conclusa con una piccola retata in cui siamo finiti tutti in carcere e abbiamo dovuto pagare una cospicua cauzione. Non sai mai cosa può succedere durante le riprese, però succede sempre qualcosa di magico. Sì, siamo responsabili di ciò che capita quando siamo lì: overdose, tutto ciò che succede... Dobbiamo stare pronti.

 

Cos’è la “etnofiction” e da dove viene?

Viene dall’essere  stufo di vedere come vengono trattati i soggetti di un documentario - siano essi emarginati dalla società o un’etnia nel mezzo dell’Amazonia -: come buoni selvaggi, in nome di una supposta obiettività. Vengono trattati come ritardati mentali. “Etnofiction” unisce l’etnografía e la ficcion. In realtà ho preso questo termine da un autore che ho letto in passato: Martin Lienhard. La etnofiction, dice Lienhard, «è la ricreazione letteraria del discorso dell’altro, la costruzione di un discorso etnico artificiale… L’autore, nell’etnofiction, si mette la maschera dell’altro». Questo mi ha portato a pensare alla libertà, a pensare che lo spettatore non sa dove lo sto portando.

 

* per gentile concessione dell’autore. L'intervista completa è disponibile su Vice Italia. Clicca qui

 

Concorso lungometraggi

Navajazo, ven. 5, ore 22.30, Teatro Studio; dom. 7, ore 19.30, Spazio Oberdan; ven. 12, ore 17.00, Teatro Strehler

 

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