A Milano per il Focus: Identità Multiformi, Shira Geffen e Ziv Berkovich ci parlano di Boreg, il loro nuovo film che mette in scena due donne alla ricerca di se stesse in una società che non le conosce
«Nessuno ti conosce, sei solo tu che puoi scoprirlo». Shira Geffen, sceneggiatrice e regista di Boreg (Self Made), riassume così il frustrante lavoro di ricerca della propria identità. Il focus, curato da Maurizio De Bonis e Sergio di Giorgi, ci permette di incontrarla insieme al direttore della fotografia, Ziv Berkovich, per fargli delle domande sulla scrittura della sceneggiatura e sulla lavorazione del film.
Qual è stata l'ispirazione di Boreg?
Shira Geffen: La storia nasce da un fatto realmente accaduto. Dieci anni fa una ragazza palestinese di Betlemme aveva deciso di vendicarsi per l'uccisione del fidanzato da parte dell'esercito israeliano, commettendo un attacco terroristico suicida. Con una cintura di esplosivo si era recata in compagnia di un ragazzino di 16 anni in un shopping center. Ma circondata da bambini che giocavano e da donne impegnate a comprare, ha deciso di vivere, di non farsi più esplodere e alla fine è stata arrestata. La vicenda di Michal e Nadine si sviluppa da questa domanda che mi sono posta: che cosa sarebbe successo se avesse fatto shopping come le altre persone con una cintura di esplosivo sotto i vestiti sembrando invece incinta?
Da questo punto di partenza, quali concetti voleva indagare?
SG: Trovo molto interessante il momento della decisione: quando scegli di vivere o di morire. Soprattutto quando la protagonista della scelta è una donna. L'immagine della cintura intorno al ventre, il luogo del dono della vita, è molto potente: volevo riflettere sul significato del dare alla luce dei figli in questo mondo.
Il mondo è folle o è reso folle dagli esseri umani?
SG: Il mondo non è folle. Sono le persone che ci vivono che sono molto bizzarre e rendono questo mondo un luogo molto confusionario dove non sa chi si è.
Le due protagoniste sono introdotte attraverso sequenze in cui non parlano. Il silenzio, che ruolo ha?
SG: Il silenzio è molto importante. Ho scelto le attrici, Sarah Adler e Samira Saraya, per gli occhi molto profondi. I miei film migliori sono quelli dove le immagini parlano da sole: lo spettatore riesce a entrare nella mente dei personaggi e capire che qualcosa sta succedendo in loro.
Etaka, pseudonimo di Ikea, è onnipresente nel film. Che cosa rappresenta questo nome?
SG: Etaka è la società. C'è una distanza tra come gli altri ti vedono e come sei veramente. Lo spazio vuoto è quello che m'interessava indagare. Boreg è un film sull'identità e sulla fatica di trovarla in relazione alla società in cui si è.
Nella messa in scena avete giocato sul rapporto tra realtà e finzione presente nella sceneggiatura?
Ziv Berkovich: Nel nostro lavoro l'arte si basa sulla realtà, ma non è la realtà. Le case delle due protagoniste e il check point sono luoghi ricostruiti: sono simili alla realtà, ma non uguali. E volevamo che questo si notasse. Le case rappresentano una realtà di bontà e affetto al contrario del check point, che è un luogo del male.
Come avete scelto di caratterizzare i luoghi in relazione ai personaggi?
ZB: I colori del film sono sulle tonalità del blu o azzurro per trasmettere la tristezza e la frustrazione che la fatica della ricerca di un'identità provoca. Inoltre abbiamo scelto che non ci fossero differenze nelle atmosfere e nelle tonalità tra le case di Nadine e Michal, nonostante le loro origini, l'una è palestinese, l'altra israeliana. Al contrario, il check point è senza colori perché senza anima.
Il finale del film è molto drammatico: di fronte a una torta di compleanno, una ragazza israeliana che lavora al check point esprime il suo totale disinteresse verso la pace.
SG: In effetti il film poteva finire prima, ma io ho insistito che quella frase fosse la conclusione. Credo che sia stata una reazione al pessimismo che provo per il futuro d'Israele, ora più forte per il risultato delle elezioni. Ma la battuta riguarda sempre l'identità: quella ragazza non sa cosa fa e perché rimane in quel posto. Ha perso il significato della sua azione e del suo essere. Come le vite di Etaka che si perdono e vagano da un luogo a un altro senza sapere la propria destinazione.
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