Al focus Identità Multiformi, curato da Maurizio De Bonis e Sergio Di Giorgi, l'ultimo film di Ronit Elkabetz, Viviane. Epilogo di una trilogia che l'ha vista regista, sceneggiatrice e interprete, protagonista della sua indipendenza
Il cinema di Ronit Elkabetz è una battaglia contro l'ipocrisia in una società del quieto vivere refrattaria al cambiamento. Scorre sul filo di una tragedia che non esplode, ma invece consuma e giorno dopo giorno annienta nervi e volontà. La protagonista è Viviane Amsalem, che da cinque anni cerca di ottenere il divorzio dal marito Elisha, davanti all'unica autorità che in Israele possa concederglielo, il tribunale rabbinico. Viviane è il terzo film dell’attrice e regista Ronit Elkmbetz, realizzato come To Take a Wife (2004) e Shiva (2008), insieme al fratello Shlomi.
La vicenda di Viviane si trascina esasperata e irrisolta, elemento di disturbo all'interno del suo nucleo familiare. Né la madre né i fratelli comprendono cosa abbia da recriminare: Elisha è un bravo compagno, lavora, prega, rispetta ruoli e precetti religiosi. Forse il desiderio di Viviane è solo un capriccio, esibizionismo. Chi la vorrà dopo il divorzio? Come crescerà i suoi quattro figli? Sono domande legittime eppure incapaci di scalfire la sua determinazione.
Ai nostri occhi è assurdo, qualsiasi siano le ragioni di Viviane diamo per assunto che possa scegliere della sua vita, liberamente. Ma in Israele moglie e marito non sono uguali davanti alla legge, l'uomo può chiedere il divorzio, alla donna deve essere concesso. Elkabetz assume il punto di vista del personaggio, con la fermezza di chi conosce la discriminazione e non ha mai accettato un compromesso. Perché Elisha è «perfetto», ma se rapportato a Viviane è un limite, è avvilente. Rappresenta bigottismo e patriarcato, demoni di ieri e di oggi, con cui le donne israeliane sono ancora costrette a convivere.
Questa apparenza tanto ineccepibile è una trama fitta e pesante tessuta attorno a Viviane. Con il suo avvocato Carmel tenta ogni stratagemma legale per persuadere la corte rabbinica a considerare le sue istanze, ma ogni udienza è uno stillicidio che non porta a niente. Come nei precedenti To Take a Wife e Shiva (in cui la vicenda di Viviane compare marginalmente in un ritratto familiare più ampio), l'ambientazione è circoscritta. Che siano le mura domestiche o le aule di un tribunale, la protagonista è prigioniera in un sistema che non l'ascolta.
Elkabetz mette in scena il campionario maschile che circonda Viviane, marito, fratelli, vicini e amici di famiglia. Tutti sono chiamati a deporre mentre la protagonista attende in silenzio i tempi biblici di dibattimento. Una presenza scenica austera e sofferente, dimentica degli eccessi di isteria che l'avevano colta in To Take a Wife,determinata a raggiungere l'indipendenza. Perché ora che il suo caso è passato dalla dimensione privata a quella pubblica, Viviane non lotta più solo per sé stessa, ma per affermare un principio, per creare un precedente.
«Credo che il film possa portare a un dibattito, accrescere la consapevolezza femminile, ma la legge non cambierà. In Israele il diritto civile e religioso sono la medesima cosa. Un codice immutato da oltre 4.000 anni» ha detto Elkebetz. Regista e protagonista, nel cinema come nel presente, di una battaglia ancora lontana dalla vittoria.
Viviane, Focus, dom 22, ore 15:00, Spazio Oberdan
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