Intervistiamo la regista Alessandra Cataleta che, con Scarti, documentario di montaggio, compone una riflessione sul mondo della televisione e sull’etica della narrazione, utilizzando i materiali dei suoi reportage per MTV
Alessandra Cataleta (1976), dopo aver lavorato come regista in televisione e per la pubblicità, nel suo primo lungometraggio monta “avanzi” (ma non solo) di documentari girati per MTV. Ai reportage originali aggiunge la sua voce narrante, che commenta e sottolinea, chiedendo scusa ai personaggi, in un racconto personale sui giovani e la crisi. E nel farlo, cercando un modo di dire la propria verità, conserva un nocciolo di purezza.
Come ti sei avvicinata al mondo del cinema?
Lo amo da quando avevo quattordici anni, prima mi esercitavo come prestigiatrice e ho finito per imbattermi in Méliès e Orson Welles che erano dei grandi illusionisti. Anche durante l’università ho coltivato questa passione, laureandomi in Lettere moderne, come indirizzo ho scelto Italianistica e Spettacolo. Ho frequentato trasversalmente il Centro Sperimentale di Cinematografia, collaborando come assistente coi registi del centro. Dopo una serie di regie pubblicitarie e corti ho vinto una borsa di studio per uno stage in Inghilterra.
E nel 2009 hai iniziato a girare i reportage per MTV?
Ho lavorato per l’agenzia giornalistica H24, che produce il format MTV News dal 2009 al 2013. Terminate le riprese mi sono dedicata ad altri progetti, ma era come se ci fosse qualcosa di strano che mi riportava indietro a quei documentari, senza sapere bene che cosa fosse.
Che cosa significa fare documentari per la televisione?
Devo lavorare in tv (e ancora riesco a farlo), il cinema e i documentari da soli non permettono di vivere. Per fare televisione bisogna sporcarsi le mani con certi argomenti, a volte accettare compromessi che non mi vanno bene. E questo nonostante MTV News fosse un programma che amavo, decisamente meglio di molte altre cose viste in passato, come certi contenitori pomeridiani...
Scarti è una presa di posizione contro un certo tipo di informazione che dà al pubblico “la sua droga”: il conflitto e la paura.
Qualsiasi scrittore o sceneggiatore ti dirà che il cuore di una trama è il conflitto, l’azione. Il problema è quando si strumentalizzano i due elementi e la morbosità che ne scaturisce. Certo, se si rimane nella fiction ci si può sbizzarrire, ma se si sta parlando di persone reali bisogna relazionarsi in maniera umana col prossimo. Va capito che non è un “altro” da noi, riconoscerlo, senza darlo in pasto al pubblico. Qualche volta ci sono cascata pure io. Il film nasce da questa esigenza, dichiarare la mia posizione, adesso. Dovevo stipulare un patto con lo spettatore, ma soprattutto ricucire un patto con i protagonisti delle storie.
Ti sei sentita parte del sistema che in realtà rifiutavi?
Certo, anche se con i miei colleghi ho sempre avuto un rapporto di stima reciproca e mi trovavo in una situazione favorevole. Ho fatto valere le mie ragioni e talvolta questo è stato positivo. Purtroppo è capitato che alcune cose dette in trasmissione venissero fraintese dal pubblico e che le persone all’interno delle storie subissero una sorta di linciaggio sui social network. Considerando il target giovanile della trasmissione, ci si poteva aspettare che si sarebbero presi di mira su internet. Si dovrebbero formare sia i creatori di contenuti sia i fruitori.
Si può pensare di educare il pubblico?
Il pubblico non può che essere disabituato dopo anni e anni di tv piatta. Noam Chomsky, citato nel film, vede dietro a questo un disegno politico; sicuramente non si può creare un contesto sociale di spessore se lo si nutre con materiali scadenti. Per questo la responsabilità di chi genera i contenuti è altissima. Ho riscontrato molto leggerezza nella divulgazione e nelle modalità di racconto, senza pensare minimamente alle conseguenze.
Avresti voluto girare i reportage diversamente?
Ero comunque in linea con le richieste dei selezionatori dei contenuti di MTV. Per esempio la mia voce è il primo degli scarti che metto in scena, una differenza rispetto ai reportage. Il film è una mia confessione. E anche una presa di posizione chiara, un punto di partenza per quello che voglio fare in futuro: diventare una narratrice che racconta le storie degli altri senza strumentalizzarle.
Che progetti hai nell’immediato?
Sto lavorando a un paio di documentari. Sono due racconti corali, due intrecci di più storie: sono nella fase di ricerca. Uno approfondisce il concetto di mettersi in mostra in contesti estranei alla pratica dell’esposizione; con il secondo documentario vorrei seguire una parata di artisti e performer steampunk.
Che importanza ha per te la frase di Hannah Arendt con cui apri il film? Si può raccontare la storia di chiunque?
È una frase cruciale perché esprime l’esigenza universale del raccontarsi e di essere raccontati: io stessa l’ho dimostrato nel film. Tutti noi, da quando nasciamo, ci mostriamo, ci raccontiamo con il nostro apparire. Tutto è estremamente raccontabile, l’importante è trovare l’emozione, riuscire a lavorare sul proprio stupore, come direbbe Costanza Quatriglio.
Nel film confessi di avere una certa ingenuità nel modo con cui guardi il mondo, come un Teletubby.
È un lavoro che faccio ogni giorno, appena mi sveglio, per ricordarmi di essere una persona buona. Sarei perfettamente in grado di essere spietata. E in televisione si è circondati da persone feroci.
Scarti, di Alessandra Cataleta, Concorso Le donne raccontano, gio 26 ore 22:00, Cinema Beltrade