L'ALTRA STORIA DELLE IMMAGINI

L'ALTRA STORIA DELLE IMMAGINI
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In un articolo sulle pagine romane del Corriere della Sera a firma di Valerio Cappelli, a proposito del Festival (o della festa o del festino o della sagra) del Cinema di Roma, si poteva leggere l’altro giorno la seguente frase: «al Maxxi con quattro persone in sala a parlare di videoarte in modo cerebrale». Ora, a prescindere dal contesto in cui questo commento è stato inserito, ovvero un pezzo sul lento declino della manifestazione guidata da Marco Müller, mi domando: ma davvero la «videoarte», ammesso che ancora esista come genere, suscita dibattiti «cerebrali» per pochi eletti?

 

In tutti questi anni mi pare che vedere, discutere e analizzare criticamente quello che io chiamo il campo della sperimentazione audiovisiva (superando così la dicotomia cinema/video/analogico/digitale) sia diventata una pratica piuttosto usuale. Perché? Semplicemente perché anche il mondo delle immagini in movimento è cambiato. Il cinema ha superato la narrazione lineare, è divenuto sempre più simile a un ipertesto e, in questo, internet ha definitivamente mutato la nostra percezione del racconto e del discorso per immagini.

 

Fino a pochi anni fa nelle università i docenti di storia del cinema assegnavano solo tesi su Rossellini, Antonioni e Visconti. Oggi sono costretti – in parte loro malgrado –, a far laureare gli studenti su Bill Viola e il videoclip musicale. Fino a pochi anni fa occuparsi di arti elettroniche o di cinema sperimentale era roba eretica e masturbatoria, oggi tutti si occupano di questo, perché  fa tendenza, perché è diventato molto cool.

 

E così siamo passati dal cinema al post-cinema. Nei convegni non fanno altro che riempirsi la bocca di questo termine. E via con una caterva di teorie.  Così finalmente, per la prima volta dopo oltre 40 anni, anche in Italia è stato tradotto quel testo fondamentale che è Expanded Cinema di Gene Youngblood. C’è da chiedersi: ma bisognava aspettare tanto per comprendere che è sempre esistita un’altra storia del cinema o, meglio, una storia dell’altro cinema. Bisognava attendere così a lungo per comprendere come, warburghianamente (Warburg, altro riscoperto eroe-teorico da celebrare), esiste una storia delle immagini, molto più stimolante di qualsiasi storia dell’arte o storia del cinema o storia della fotografia? Ci siamo arrivati grazie ai visual studies.

 

Così come oggi le neuroscienze applicate all’arte, al cinema e agli studi di estetica in generale, rappresentano un’altra importante frontiera critico-analitica per rigenerare e innovare il nostro modo di guardare e leggere un’opera. E allora l’articolista che parla di «videoarte» e di «cerebralità» magari nello specifico avrà pure ragione (non so a quale convegno o rassegna o presentazione si riferisca), ma – parlando in termini generali – ha torto marcio.


È rimasto solo lui a pensare che esista ancora «Il Cinema» e che si proietti in una sala cinematografica, un po’ come il giapponese che pensa di essere ancora in guerra. La guerra è finita o, meglio, è solo cominciata.

 


* Studioso delle immagini in movimento, docente di Teoria e Metodo dei Mass Media all’Accademia di Belle Arti di Frosinone

 

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