UNO SPRITZ CON EUGENE JARECKI

UNO SPRITZ CON EUGENE JARECKI
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Appena atterrato da Londra il documentarista Eugene Jarecki viene accolto da un tipico aperitivo italiano che non sembra disdegnare. È stato accompagnato da Nora, sua collaboratrice ai tempi della Charlotte Street Film, che lui descrive come la persona capace di regalargli più felicità sulla faccia della terra. È generoso di sorrisi e confidenze Jarecki e tra un bicchiere di vino e uno Spritz ci sediamo sul sagrato del Piccolo per fare il punto sul suo  lavoro e sul focus che MFF gli ha dedicato all'interno della sezione Colpe di Stato. 

 

Jarecki, nato in Connecticut nel 1969, è tra gli autori che utilizzano il documentario non solo come forma cinematografica di indagine della realtà, ma anche come strumento per provare a cambiarla. Eugene Jarecki è infatti un'attivista dei diritti umani e un opinion leader politico di fama mondiale. Partendo dalla situazione statunitense, cerca di destare l'attenzione a livello globale su temi scottanti e problemi sociali, come ad esempio la guerra alla droga narrata in The House I live in.

Jarecki, diretto e alla mano, mi chiede subito di dargli del tu.

 

Eugene, nel film inizi la tua indagine sul mondo della droga da un punto di vista molto intimo, raccontando la vicenda della tata afroamericana della tua infanzia. Perché? 

Se sei un regista con un minimo di senno, che vuole fare un film sulla crisi dei diritti umani in Usa, devi stare attento alle reazioni e al tipo di sensibilità che il tuo film andrà a toccare, soprattutto a livello razziale. Cosa dirà un uomo di colore del film che hai realizzato su una vicenda che non è la tua? È stata vissuta da milioni di persone nel Paese, ma non da te personalmente. Io sono il tipo di persona che, nel mio paese, ha la possibilità di commettere alcuni crimini impunemente. Potrei acquistare droga e probabilmente non finirei nei guai per questo, potrei consumare droga comodamente sul mio divano, in casa mia senza il timore di essere scoperto perché non vivo in una comunità o in una zona in cui la polizia può irrompere da un momento all'altro per controllare la mia condotta. Ma soprattutto non ho un colore di pelle che induce la polizia a fermarmi e controllarmi mentre sono per strada. Un certo tipo di spettatore, se non fossi stato attento nel raccontare la vicenda, avrebbe presumibilmente criticato la mia ingerenza. Si sarebbe chiesto perché sto facendo questo film? Che ruolo ho? Che diritto ho per parlare di questa storia? Ho cercato quindi un approccio più intimo, che non c'entrasse unicamente con la mia esperienza in prima persona, o che mi toccasse indirettamente attraverso le persone che io conosco e amo. Ho preferito piuttosto concentrarmi sulle testimonianze delle persone di colore, povere, lontane dal mio mondo. Iniziare dalla vicenda di Jeter mi è servito per legittimare il mio lavoro rispetto a una parte di pubblico, ma anche per creare un contrasto tra il mio personale pensiero in materia, e la cruda realtà che ho documentato.

 

Intendi forse che quello che hai scoperto durante le riprese del film discordava dalla tua opinione iniziale sul tema? 

Nella mente di ogni filmmaker, si dovrebbe avere da una parte il lavoro di ricerca, di investigazione, dall'altra un lavoro di mediazione personale con i propri preconcetti, o conoscenze formatesi in ambito sociale e familiare, che puntualmente si rivelano essere diverse da quelle delle persone cresciute in ambienti distanti dal mio. Il mio interesse sulla guerra alla droga è stato influenzato fin dall'inizio da ciò che pensavo sulle persone di colore, e questo non ho potuto e non ho voluto nasconderlo nel film. 

 

Come speri che reagisca il pubblico del MFF?

Quello che chiedo a questo diverso tipo di spettatore è di avere compassione politica, di essere indulgente, di chiedersi cosa farebbe se capitasse a te. Da quando ho iniziato questo film, un membro della mia famiglia è morto per abuso di droga e un altro è stato arrestato per lo stesso motivo.

Quello che il film rivela è che ciò che iniziò come un problema di violazione dei diritti umani di una parte della società americana circoscritta a poveri e neri, si è ormai esteso a soggetti quali donne, latinos e indigenti bianchi. Nonostante i primi, i black young people, rimangano i più perseguitati dal sistema giudiziario americano, la fetta di mercato della droga più ampia viene ricoperta da questa seconda tipologia di soggetti. Si può affermare che la droga ha democratizzato il suo sistema, passando da una scelta di razza a una di classe. 

 

The Trials of Henry Kissinger è il secondo film presentato nel focus dedicato al regista. Chi è Henry Kissinger per Jarecki? 

È un errore pensare che io abbia fatto questo film per esprimere la mia rabbia nei confronti di quest uomo, e dei crimini che ha commesso e di cui è stato accusato da diversi organismi internazionali. Non voglio, attraverso il film, promuovere un'indignazione nei suoi confronti. Io non sono arrabbiato con lui, io sono arrabbiato con il sistema americano che ha promosso e ha reso possibile che una persona come Kissinger lucrasse sulla vita umana, in un modo che io reputo immorale. Io penso che persone come lui, siano persone primitive, risolvendo i problemi internazionali con lo strumento più cieco e inutile, la violenza. La non violenza è l'espressione più riuscita di potere umano, ma solo recentemente si è giunti a questa consapevolezza, attraverso i media, il web, la diplomazia.. Eppure Kissinger non era sprovveduto in materia diplomatica, ha maturato una formazione sul campo. Come è possibile? 

Quello che rinfaccio a Kissinger dei suoi anni al potere, durante la risoluzione di controversie internazionali (alcune portate a termine con esiti ottimi come quella cinese) è l'utilizzo incontrollato di ciò che chiamo hard power - il potere forte in opposizione al soft power rappresentato dalla non violenza. Ad esempio, l'assassinio di molti cileni che non erano d'accordo con gli Stati Uniti e la loro opposizione alla rivoluzione socialista cilena; la scelta di Kissinger, non approvata dal congresso, di bombardare segretamente la Cambogia; o ancora la decisione di permettere all'Indonesia di armarsi e di massacrare, così, migliaia di asiatici.

Potrei effettivamente sembrare rancoroso nei suoi confronti, perché per colpa delle sue scelte  sono morte molte persone, ed è così! Perché disprezzo ogni singolo atto che porta all'assassinio di un essere umano. Ma penso che sia stato davvero difficile essere Henry Kissinger. Per questo ho intitolato il film The Trials of Henry Kissinger (i processi, tratto dal libro di Christopher Hitchens The Trial of Henry Kissinger). Penso che sia difficile per chiunque riuscire a essere quel soggetto che prende le decisioni più sporche del paese più potente al mondo dello secolo scorso. Tuttora, e la vicenda di Wikileaks lo può confermare, gli Usa perpetuano in tutto il mondo dirty business che sono completamente in disaccordo con i principi democratici per cui migliaia di americani hanno immolato le loro vite. 

 

Hai qualcosa da dire a Kissinger?

Credo che Kissinger rappresenti un Sistema malato, che ha bisogno di cure, di una terapia profonda che gli faccia capire come mai si è allontanato così tanto dagli ideali di nazione democratica da cui era partito. Henry Kissinger dovrebbe farsi un esame di coscienza prima di morire, chiedersi "sono cresciuto per essere una contraddizione?" È cresciuto in una famiglia di ebrei tedeschi, perciò perseguitati. Poi è diventato un politico, ma prima era un bambino che ha subito abusi e discriminazioni, dovrebbe conoscere personalmente cosa significa vivere certe disgrazie sociali. Rest in Peace after this Kissinger!

 

Quanto è importante la verità per te? Che valore e che potere ha in un'intervista? 

Prima di tutto, l'idea di verità può essere molto pericolosa, come è pericoloso l'intento di perseguire la verità assoluta. Penso al quotidiano di propaganda dell'ex Urss che si chiamava Pravda. Pravda significa verità in russo e probabilmente la ricerca della verità non era il suo ideale principale. Mi fa paura la frase "La Verità ti rende libero". Nella storia abbiamo assistito a un abuso del concetto di Verità, apparentemente è un'idea molto nobile, ma è anche qualcosa di estremamente ambiguo. La verità di una persona non è la stessa di un'altra. La verità è un fondamento della democrazia americana: la grande verità americana è che tutti gli esseri umani sono uguali tra loro, eppure il governo non tratta equamente i suoi cittadini. La verità è facilmente manipolabile ed è un rischio considerando il mio lavoro. 

 

In che senso? 

Il documentario può essere il genere più pericoloso di diffusione di una verità cattiva, penso agli strumenti cinematografici di propaganda fascista e nazista dei primi del novecento. Il mio paese tutt'oggi sfocia nel fascismo parlando delle sue verità.

Io perseguo la Verità, sono alla continua ricerca dei metodi migliore per giudicare i sentieri della Verità. Cerco di essere vero nei miei ideali, cerco di essere vero nelle interviste. Ad esempio, quando intervisto qualcuno, sto attento a non manipolare il significato delle sue parole. Se qualcuno mi dice qualcosa che non credo sia vero, non lo taglio, anzi lo includo nel lavoro, cercando di confutarlo o controbatterlo.

 

 

Focus Eugene Jarecki: what is America to me?

Why we fight, dom. 7, ore 20.30, Teatro Studio;

Why we fight - masterclass; domenica 7, ore 17, Teatro Studio Melato

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