Milano Film Festival rende omaggio a Enzo Jannacci: Jannacci, lo stradone col bagliore è una dedica affettuosa e sentita di Ranuccio Sodi all'amico e poliedrico artista milanese scomparso nel 2013, simbolo di una Milano che non c'è più
«Cognome: Jannacci. Nome: Vincenzo, detto Enzo. Nasce prevalentemente a Milano, il 3 giugno 1945. Peso alla nascita: kilogrammi 5.563, probabilmente diabetico. Segno zodiacale: Gemelli – pare sia una cosa orrenda, va beh! Origini famigliari: greco/balcaniche – nel senso che c'ho la faccia, la fisionomia grecobalcanica - infatti da questo deriva la faccenda fame atavica...».
È una delle surreali presentazioni che fa di sé il protagonista assoluto di Jannacci, lo stradone col bagliore, un video di Ranuccio Sodi. Una raccolta antologica accorata e sentita sul grande artista milanese scomparso nel 2013. Un'anima controcorrente, il guizzo eccentrico e il piglio esagerato. Cantava gli ultimi in quel dialetto che il regista definisce «struggente», a cui Jannacci ribatte prontamente: «struggente? Non si capisce un cazzo!».
Un grande lavoro di selezione tra immagini di repertorio e filmati privati scelti tra circa cinquanta ore di materiale d'archivio. Il racconto dell'amico, uomo stralunato e geniale, «il cantore della realtà faticosa e degli esclusi», tra sorrisi, sghignazzi e commozione.
Ne parliamo con il regista e direttore artistico negli studi Show Biz, storica casa di produzione da lui fondata.
Come mai ha deciso di omaggiare l'irriverente cantautore milanese?
L'idea del film è nata dopo la sua morte. Ho voluto fare un documentario che raccontasse i meccanismi che si muovono nell'essere artista e il rapporto che si instaura tra un fan e un cantante. Che rapporto esiste? Di solito è simbiotico. Io son stato fan di Jannacci molto tempo prima di conoscerlo e nel film spiego perché. Lo seguivo fin dal '63, dai suoi esordi. Poi negli anni Settanta, gli anni di Vincenzina e la fabbrica, anni di contestazioni politiche (andavo a volantinare tutte le mattine alle 5 davanti ai cancelli dell'Innocenti), ho avuto la fortuna incredibile di conoscerlo.
Quando è avvenuto il vostro primo incontro?
Un giorno un amico comune, Romano Frassa, produttore della RAI con cui collaboravo in quegli anni di cinema militante milanese, mi chiese se avessi voglia di fare l'assistente alla regia per un piccolo film, La tappezzeria, del '77. Accettai immediatamente! Il corto fu un mezzo insuccesso, per una serie di inesperienze, mie e di Jannacci stesso. Il budget era molto limitato e nonostante la validità del progetto dal punto di vista creativo, non siamo riusciti a dargli una sintesi estetica accettabile. Da quel film, però, sono nate diverse carriere, un trampolino di lancio per diversi comici e attori, da Abatantuono a Boldi, e anche per la nostra amicizia.
Cosa rendeva Jannacci così umano e amato dalla gente?
Aveva un grande senso della sofferenza altrui, provava una forte empatia. Ma era una persona anche molto difficile. Anche chi lo apprezzava, a volte, dopo averlo conosciuto smetteva di farlo. La sua sensibilità era così forte, anche autodistruttiva, e come tutti i grandi artisti aveva una visione del mondo al di sopra delle righe, al di sopra di tutto, tale da vedere oltre l'orizzonte, in una maniera che per molti risultava incomprensibile e lontana. La sua grandezza risiedeva nel fatto che nonostante fosse spesso problematico, con le sue opere riusciva a rendere un immaginario comune a tutti.
Come ha lavorato con il ricco materiale d'archivio che compone il film?
Durante gli anni di amicizia e di lavoro ho collezionato diversi filmati. Montagne di VHS e hard disk da cui ho estrapolato quello che mi sembrava più curioso. Non mancano poi scene di vita quotidiana, che ho girato con la mia telecamera, e che erano quelle più trascinanti e divertenti.
Jannacci è “sinonimo” di Milano. Esiste ancora la città protagonista di molte sue canzoni?
Quella degli operai in bicicletta in tuta blu verso il lavoro non esiste più. Non ci sono più le fabbriche, il dialetto è quasi scomparso. Ma questo non significa che non ci siano gli emarginati e i fenomeni di subalternità economica, anche se ora si è trasformata in una subalternità culturale. Ci sono altre forme di esclusione, ma ci manca lo Jannacci che ce le interpreti e le canti.
E il dialetto, elemento fondamentale della sua poetica?
Anche quello non esiste quasi più. Lui stesso ad un certo punto della carriera si rende conto che è uno strumento limitante, e che se vuoi avere successo, ed è quello che tutti i cantanti si augurano, devi usare la lingua di tutti. Così scrive i suoi primi successi in italiano, come Vengo anche io. No, tu no. Ma ammette anche che in alcune occasioni il dialetto è necessario, come in Ti te sé no, uno dei suoi brani più struggenti, in cui l'italiano – tu non sai – non funziona. Il poeta ha bisogno di parole, ma anche di sfumature e suoni.
Cosa le manca di più di Jannacci?
La sua vicinanza, la sua chiave di comprensione del mondo, di quello che ti circonda e capita. Se fosse ancora qui sarei curioso di conoscere il suo pensiero sul passaggio da Berlusconi a Renzi, sulla situazione italiana, sulla tragedia dei grandi flussi migratori. Un tema pane per i suoi denti, lui che ha sempre cantato gli ultimi e gli esclusi. Cinicamente penso che non gli sarebbe mancato del buon materiale per le sue canzoni.
Jannacci, lo stradone col bagliore, Ranuccio Sodi, The Outsiders, mar 15, ore 21, Parco Sempione
*Foto di Fabio Traves
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