Alla conferenza stampa per la XXa edizione del MFF sono stati annunciati i titoli di Colpe di Stato, sezione del Festival dedicata all’informazione e alla denuncia dei casi internazionali più controversi
«E’ un appuntamento necessario al MFF - spiega Vincenzo Rossini, tra i direttori artistici del Festival - per affermare la sua identità e al pubblico per conoscere le logiche di potere e le ingiustizie politiche ed economiche che la cronaca giornalistica, da sola, non riuscirebbe ad approfondire».
Vizietti di gioco, immigrazione, guerre presenti e passate, economiche e psicologiche vengono raccontati attraverso il linguaggio mai banale di dieci registi, tra cui l’italiano Fabio Lelli e il suo Vivere alla grande. Ne parliamo con Paola Piacenza che delle contaminazioni tra cinema e informazione ha fatto la sua professione e che per il quarto anno è curatrice della rassegna Colpe di Stato.
Parliamo del valore informativo e artistico delle opere che hai selezionato quest’anno.
Anche quest’anno sono presenti dieci film e ne sono molto fiera. L’unico che ha un vero e proprio taglio da inchiesta giornalistica è Falciani’s Tax Bomb. Il film sullo scandalo bancario della HSBC ha alle spalle una grande struttura produttiva ed è un’opera che ha richiesto un vasto accumulo di dati e testimonianze per la sua realizzazione. Falciani sarà presente al Festival e ci racconterà di questo “SwissLeaks”. Altre opere hanno impianti produttivi più piccoli, ma mantengono sguardi originalissimi e per questo sono stati scelti. Colpe di Stato è l’unica sezione di current events di questo tipo e il nostro obiettivo è continuare su questa strada.
Ogni anno, insieme agli altri curatori del Festival, mi rendo conto che i film selezionati guardano molto in una direzione: quest’anno è l’Est. Afghanistan, Cina, Israele… ma c’è anche l’Africa, con un film molto contemplativo come Elephant’s Dream, uno sguardo illuminante sulla condizione della Repubblica Democratica del Congo, raccontato attraverso le vite di tre impiegati statali che non fanno assolutamente niente, lavorano dentro a scatole vuote. Una caserma dei pompieri che prende fuoco, un ufficio postale che non riceve mai posta e un capo treno che non vede mai passare i treni. Riassunto di uno Stato che non esiste, attraverso lo sguardo di chi lo abita.
Un film molto forte è Tell Spring Not to Come This Year, direttamente dall’ultima Berlinale. Un filmmaker di professione e un ex soldato britannico, esperto in intermediazioni seguono giorno per giorno un battaglione in Afghanistan. Un esempio di embedding che va oltre il giornalismo, perché la guerra ai talebani viene raccontata in maniera cinematografica, lo spettatore viene catapultato dentro la vita dei soldati terrorizzati che filmano durante gli attacchi. Dall’azione sul campo di battaglia alla decompressione di un luogo, Killing Time è l’esplorazione dello stato mentale ed emotivo dei giovani soldati americani e dei loro familiari all’interno della più grande base militare al mondo di Twentynine Palms, in California, dove i soldati tornano tra una spedizione e l’altra. È il posto della riflessione e dell’attesa. Vedere questi due film a breve distanza l’uno dall’altro è una sensazione molto forte.
Censored Voices è invece un film di parola e memoria, è la narrazione della Guerra dei sei giorni, conflitto arabo-israeliano del 1967 che si è concluso con una rapida e totale vittoria israeliana. Tutti i nemici arabi erano stati sconfitti, era stato conquistato il territorio mai più mollato di Cisgiordania, Gerusalemme est, Alture del Golan. Una vittoria gloriosa, ma il sentire è diverso per chi ha partecipato a questa guerra. Il film è incentrato sulle sensazioni a caldo dei soldati di ritorno dal conflitto, raccolte nei kibbutz. Tra di loro anche lo scrittore Amos Oz, che a proposito delle registrazioni utilizzate afferma: «Abbiamo detto la verità». . C’è un'altra semantica del conflitto che emerge, l’idea degli stessi soldati di aver espropriato e non liberato un territorio.
La tematica più calda di Colpe di Stato 2015?
L’immigrazione è il tema protagonista indiscusso delle cronache di questi giorni. Those Who Feel the Fire Burning è un film ibrido, tra verità e finzione, per scuotere gli spettatori sulla morte dei migranti. Seguiamo le vicende di un morto, lo spirito di uno delle migliaia di caduti in mare, dopo il naufragio di un barcone. Lo seguiamo nei luoghi in cui si trovano i suoi ex compagni di viaggio, più fortunati. L’opera non sensazionalizza il concetto di morte, la tragedia viene invece narrata in modo trascinante, ti costringe a partecipare e inibisce l’anestesia a cui siamo tutti abituati.
Leggendo il programma, salta all’occhio che rispetto agli anni passati, manca una retrospettiva all’interno della sezione. Il direttore artistico Alessandro Beretta sottolinea che il Festival ha voluto omaggiare il documentarista austriaco Nikolaus Geyrhalter.
Abbiamo avuto due anni di focus molto azzeccati e con un grande successo di pubblico. Nel 2013 con il workshop di Sylvain George: dare eco agli invisibili e nel 2014 con la masterclass d’autore Eugene Jarecki - Why he fights. Entrambi gli autori si sono concessi molto, coinvolgendo il pubblico attraverso i loro documentari politici, creando in questi anni un impianto di grande ricchezza che purtroppo siamo costretti ad archiviare, non per ragioni particolari, ma per una situazione che accomuna tutti i Festival. Rimane un peccato costruire per poi contenere, perché i progetti e le idee ci sono.
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