IL PUNTO DI VISTA DISSOLTO

IL PUNTO DI VISTA DISSOLTO
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Uno degli album più belli e improbabili di Lou Reed si intitola Take no Prisoners. È un doppio live in cui il grande poeta del rock dovrebbe cantare alcuni dei suoi numerosi cavalli di battaglia nel glorioso e degradato Bottom Line di New York. «Dovrebbe» perché, strafatto di anfetamine, Lou accantona i musicisti, che continuano a iniziare i brani, per coinvolgere (e sconvolgere) un pubblico già sconvolto di suo con interminabili monologhi sul mondo e su se stesso. A un certo punto, Lou dice anche «Io so fare Lou Reed meglio di chiunque altro». E questo «fare» altro non è che il disvelamento brutale (e dunque poetico) della realtà in presa diretta. Gli album dei Velvet Underground e di Lou Reed, come i film di Kowalski (nella foto l'autore con Johnny Thunders in Born to Lose, ndr), non rappresentano ma fanno. Non illustrano ma lasciano che si mostri ciò che accade. Lo scarto sembra minimo, ma è in realtà la chiave di volta del realismo non patetico, non idealizzato. Dunque, quello che accade. E non si tratta di documentarismo. Il documentario prevede un punto di vista esterno. Nel cinema di Kowalski (e nei dischi di Lou Reed) il punto di vista è dissolto nel film. È il film che «si vede» e nello stesso processo di dissoluzione è coinvolto lo spettatore, strattonato di qua e di là, attore e regista e cattiva coscienza del film, al di là e al di qua dell’immagine che scorre e travolge e davvero non fa prigionieri, nell’utopia malvagia e purissima della libertà e del suo fantasma. 

 

Domenica 30 novembre Lech Kowalski tiene una masterclass Filmare il conflitto al Cinema Beltrade.

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