COSTRUIRE CITTÀ DI LUCE

COSTRUIRE CITTÀ DI LUCE
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Alla scoperta di URBANSCREEN, il collettivo artistico tedesco in attività dal 2005 che propone una nuova estetica della città attraverso il videomapping, al confine fra arte e tecnologia,  proiezioni grafiche su superfici di edifici urbani

 

Chi sono gli artisti di URBANSCREEN? I dieci componenti del gruppo originario di Brema provengono da differenti discipline artistiche, architettura, media art e stage design, legate in un unico progetto da quasi dieci anni. La loro attività si concentra sulla rielaborazione di strutture e siti urbanistici, sui quali vengono proiettate immagini e giochi luminosi. La luce è l’elemento fondamentale per uno studio dello spazio allargato e in movimento, caricato di una nuova vitalità cinematica. Sulle superfici reali dei palazzi si incontrano diverse forme artistiche: i danzatori compiono le loro performance,  gli attori indagano il senso dell’uomo su palcoscenici virtuali, mentre gli insetti divorano la facciata di un palazzo. Un lavoro composito e vibrante di energia, nell’originale ricerca di nuovi effetti audiovisivi. Premiati in tutta Europa per i loro allestimenti (memorabile l’installazione e performance alla Sydney Opera House), sono ospiti domani a Milano dell’Istituto Europeo di Design dove terranno una masterclass in occasione del festival di cinema Invideo.
Incontriamo il socio fondatore Thorsten Bauer e Janna Schmidt nella sede di A.I.A.C.E. per una lezione vis-à-vis di media-art.

 

Come siete arrivati all’odierna formazione di URBANSCREEN?
Abbiamo iniziato nel 2005 come collettivo artistico, provenivamo dai più diversi ambiti artistici e professioni e non solo, fra di noi c’è anche chi si occupa di business, un architetto, io stesso ho un background musicale. È iniziato come una sorta di rete libera di artisti, ed eravamo legati alla realtà del Teatro di Brema, dove lavoravano come danzatrici le nostre compagne. Abbiamo anche lavorato in un teatro di danza. Abbiamo iniziato a lavorare in spazi aperti e con un progetto su maxi-schermo, le prime proiezioni sono state un successo, anche finanziario. Da lì siamo cresciuti: alcuni di noi se ne sono andati e altri si sono aggiunti al gruppo fondante. Janna è entrata come amministratrice ma collabora anche alla parte teorica del nostro lavoro. Non ci limitiamo solo a fare le cose, ma ci soffermiamo anche ad osservare quello che sta succedendo, ai cambiamenti delle forme d’arte.

 

Quanto è importante la ricerca di nuove tecniche per il vostro lavoro?
Ovviamente da un lato c’è tutto il processo di sviluppo artistico, e dall’altro una forte componente tecnica di ricerca di nuove formule. Sebbene la tecnologia sia molto importante, è decisamente più intensa la parte artistica: la tecnica è solo un mezzo, uno strumento per raggiungere i fini artistici.

 

Cosa vi spinge a realizzare queste installazioni?
Venendo da ambiti così diversi, ognuno ha una sua prospettiva, e una sua motivazione. Io mi considero un inventore in cerca di nuove potenzialità per questa forma d’arte. Mescolarla con il teatro, con la danza, con l’architettura e con la scultura.

 

Avete qualche particolare fonte d’ispirazione?
Abbiamo molti interessi da cui traiamo spunto. Tuttavia la nostra è una cosa nuova e ci sentiamo pionieri di questa frontiera che cerchiamo di spingere avanti, senza rifarci ad altri. Ovviamente c’è un forte legame con il cinema: anche noi lavoriamo con grossi schermi e c’è uno studio sulla luce che certo ha a che vedere con il cinema, ma soprattutto con la scultura ed il design. Negli ultimi due anni abbiamo iniziato a pensare agli edifici come oggetti da scolpire, anche l’ Opera House di Sydney  è un oggetto che inizia a muoversi e cambiare nel tempo.


Quali sono i limiti tecnici per le vostre installazioni?
Non possiamo lavorare su qualsiasi struttura. Al di là delle preferenze architettoniche deve essere un edificio di un colore chiaro, e senza troppi ornamenti barocchi o gotici, sarebbe troppo difficile. Ci servono determinate forme ma neppure una superficie del tutto piana. Bisogna trovare un equilibrio fra spazi liberi e altre forme grafiche a cui fare riferimento.

 

Milano è piena di nuovi palazzi su cui poter lavorare…
L’architettura moderna, che è ciò che amiamo, utilizza molto con il vetro oggi. Per poterci lavorare occorre coprirlo, ma si può fare. In Italia un possibile progetto è il Maxxi a Roma, di Zaha Hadid.

 

Quanto durano solitamente le vostre installazioni?
Dipende dall’evento ospitante, se è un festival possono durare anche tre settimane, come a Sydney.
Abbiamo anche tenuto spettacoli che sono durati una sola serata: così diventa speciale perché tutta l’energia accumulata per quel lavoro sboccia in un singolo momento, e poi scorre via, e questo è il l’aspetto poetico della cosa. I nostri lavori non possono durare a lungo, è una condizione vincolante: non possiamo mantenere un allestimento per due anni. Il nostro lavoro è infatti un commento a qualcosa che esiste già, e l’installazione rimanendo là da commento rischia di diventare la frase principale. Lavoriamo sulla sorpresa: stupire il passante che conosce l’identità di un luogo e lo trova stravolto dalle nostre luci. L’approccio cambia totalmente se sappiamo in partenza che lo spettacolo durerà a lungo. Per questa idea ci confrontiamo con quella che si chiama media-texture, un’architettura pienamente ricoperta da impianti LED. Finora ci siamo occupati di lumen-texture, abbiamo lavorato sulle identità di quel sito specifico: chi ci lavora, qual è la sua storia e il suo contesto, e da ciò ricavarne un commento. La nostra è una reazione a qualcosa e non un moto artistico autonomo. Nel caso del media-texture quello che si fa non è più commentare ma creare dalle fondamenta un’identità che prima non esisteva. Ma l’approccio è diverso, e pazzo al tempo stesso: come può un video essere l’identità di un edificio?

 

Come cercate i luoghi su cui lavorare?
La cosa principale da fare, oltre che verificare le possibilità architettoniche dell’edificio, è sedersi ad osservare la location, parlare con la gente e scoprirne il genius loci, e tornare a casa con quell’impressione.
Per realizzare Insektion, che invece ha quest’aneddoto divertente: per studiare le formiche abbiamo passato qualche notte chiusi da soli in un terrarium con camaleonti liberi e tarantole…

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