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DIETRO LA GUERRA, BELLEZZA
di Camilla Mirone

Hüseyin Karabey ha una ricetta particolare: parla della guerra raccontando anche le cose positive che rimangono oscurate dalla sua violenza. Il film che quest’anno è in concorso, Come to my voice, parla del viaggio che Jivan e sua nonna devono intraprendere alla ricerca di un modo per salvare il papà della bambina. Pur muovendosi in un contesto di pericoli e difficoltà, il film è ricco di elementi fiabeschi , a tratti quasi magici.

Qual è il modello per uno sguardo così inconsueto?

Io sono curdo e ho avuto delle esperienze terribili durante la guerra civile tra il 1984 e 2000. Mi è capitato di raccontare la mia e altre storie tramite gli orrori di cui sono stato testimone. Ma ad un certo punto ho capito che mostrare solo la crudezza della realtà non aiuta a comunicare con persone non informate. Bisogna creare empatia. Il mio modello in questo senso sono stati i vecchi cantastorie. La cultura curda è interamente fondata sulla trasmissione orale, io stesso ho imparato la storia del mio popolo così. La forza dei cantastorie sta nell’abilità di coinvolgere gli ascoltatori da un lato distillando a poco a poco i dettagli, creando curiosità crescente. Dall’altro fingendoogni volta di essere stati testimoni diretti del racconto. Purtroppo è una tradizione che si sta perdendo, le nuove generazioni hanno altri modi di apprendere e insegnare. Comunque quando guardi film drammatici, di solito vedi solo delle scene cruente. Ma se vuoi che si crei empatia, devi mostrare quanto la vita sia bella anche per le vittime. Perché è proprio così: queste persone non stanno solo soffrendo.

Sembra che anche il bellissimo paesaggio sia un elemento necessario per creare l’atmosfera del film...

Pensa all’Afghanistan, nell’immaginario di chi non ci è mai stato è diventato il luogo dei bombardamenti americani. Se invece ti innamori del suo paesaggio, sarai più coinvolto, ti preoccuperai sinceramente se verrà distrutto. In Kurdistan molti lottavano per salvare le splendide foreste che invece sono state distrutte da persone che nemmeno sapevano cosa stavano eliminando. Per creare empatia devi fare in modo che la gente sia conosciuta per la cultura, la vita quotidiana, i luoghi.

Nel film ritorna spesso la storia di una volpe che perde la coda e che Jivan chiede continuamente alla nonna di raccontare. è una storia della tradizione curda? L’hai sentita da tua nonna?

Sì, è una storia molto famosa. Io sono nato a Istanbul, perché la mia famiglia già prima che nascessi aveva lasciato il Kurdistan. Non ho imparato bene la lingua curda, per me era solo la lingua di mia madre che aveva paura ad insegnarmela. Però una delle mie migliori amiche aveva un rapporto molto stretto con sua nonna e allora ho chiesto a lei di raccontarmi alcune storie. Così ho sentito quella della volpe. Ho trovato poi che fosse molto adatta al mio film.

Una delle scene chiave del film è quella in cui Jivan va alla ricerca di una pistola per riscattare il padre e torna con delle pistole giocattolo donate dai suoi amici.

Alcuni pensano che quella sia una scena comica. Per me, invece, sta a significare che i bambini non si arrendono mai. Anche se sanno che quelle non sono le pistole che i soldati cercano, decidono di agire. è la molla che spinge la nonna a intraprendere il viaggio. Non sempre si può spiegare ai bambini tutto secondo la nostra logica, hanno un altro modo di ragionare, ma pur rimanendo bambini, agiscono. Al ritorno del viaggio, però, Jivan ha recuperato una pistola vera. è il momento in cui diventa adulta.

Perché e come hai iniziato a fare il regista?

Quando avevo vent’anni la vita era davvero difficile, era faticoso vivere nelle grandi città cercando di mantenere la propria dignità. Quando sei uno studente, quando sei giovane, avresti voglia di cambiare tutto quello che vedi e che non ti piace. Ho partecipato a proteste, manifestazioni, sono stato più volte arrestato e alla fine ho trascorso più di un anno in prigione. Alcuni miei amici ne hanno trascorsi anche di più e altri infine sono stati addirittura uccisi dalla polizia. Ero molto arrabbiato e avrei davvero voluto fare qualcosa, ma non riuscivo a compiere gesti violenti, non mi si addice. Tra il 1994 e il 1999 ho iniziato a girare documentari: non appena succedeva qualcosa di importante, lo andavo a filmare. Lì ho deciso di studiare cinema.

Concorso Lungometraggi

Come to my voice sab. 6, ore 20, Teatro Strehler; dom. 7, ore 15, Teatro dell’Arte; dom.14, ore 11, Spazio Oberdan