The Age of Rust, presentato nel concorso cortometraggi, rappresenta per Francesco Aber e Alessandro Mattei la fine di un percorso di studi (al Centro Sperimentale di Cinematografia, sezione Animazione) e l'inizio di un cammino fortunato, cominciato da Annecy e che li condurrà fino a Seul.
A fine proiezione, con ancora le valigie al seguito, i due giovani registi trovano il tempo per raccontarmi la storia di un corto bizzarro e insolito.
Francesco, il vostro è un lavoro a quattro mani che mescola riprese dal vero e animazione. Come siete arrivati alla costruzione della storia?
Come tutte le cose belle è iniziato abbastanza per caso. Ho sempre avuto una forte passione per l'animazione, ma non sono mai stato un gran disegnatore. È stato attraverso il 3D che ho trovato il modo di esprimermi.
In questo corto abbiamo lasciato da parte il lato tecnico per concentrarci sulla storia.
La parte di pre-produzione è durata circa tre mesi. Abbiamo scelto la storia ma non eravamo convinti, quindi l'abbiamo modificata più volte. Prima c'erano gli alieni, poi è diventato un documentario, alla fine siamo riusciti a trovare una soluzione che convincesse entrambi.
Qual è stato il momento più difficile del processo di lavorazione?
Sicuramente quello delle riprese, fatte al Parco del Gran Paradiso. Dovevamo girare e mettere in scena situazioni che in realtà non esistevano e che quindi bisognava ricostruire. Non è stato semplice.
Abbiamo deciso di giocare con immagini di repertorio che mostrano escavatori reali perché pensavamo fosse una buona strada per ingannare il pubblico e rendere vagamente credibile quello che in fondo è un mockumentary.
Una parodia del documentario naturalistico quindi. Qual è il confine tra il taglio sarcastico e la volontà di porsi come riflessione sulla questione ambientale?
Quello di fare il verso ai documentari di National Geographic era l'unico modo per raggiungere un pubblico eterogeneo e conferire al finto documentario un'aura di credibilità, nel modo di trattarlo e non nel contenuto della storia.
All'inizio non era nelle nostre intenzioni voler impartire la lezioncina sui disastri ambientali, poi ci siamo resi conto che il messaggio ecologista c'era. Quindi, se da un lato abbiamo scelto di cavalcarlo, dall'altro non abbiamo lasciato che prevalesse rispetto ad altri elementi della storia, ma che ci fosse un giusto equilibrio.
Il messaggio finale non è chiaro, è universale e ognuno è libero di cogliere ciò che vuole all'interno di una cornice ironica che prende in giro ambientalisti, cacciatori, documentaristi e anche noi stessi.
C'è chi si interessa alla parodia di Jurassic Park, chi è più sensibile alla riflessione ambientale. È proprio questo il bello, la sua capacità di suscitare riflessioni ogni volta diverse.
E tu Alessandro, a quanto pare l'idea è venuta a te. Il paesaggio antropizzato e gli escavatori che si umanizzano: un conflitto che poi si trasforma nella speranza di una pacifica convivenza?
Il soggetto l'ho pensato io, ma il lavoro è stato sviluppato insieme.
Il ribaltamento dei ruoli ci ha aiutato nella narrazione rendendo possibile la parodia. Gli escavatori rappresentano la metafora dell'uomo, unico responsabile della distruzione dell'ambiente. La vera minaccia è quindi al pianeta, le cui risorse si esauriscono poco a poco mettendo in crisi gli esseri umani, che intanto restano indifferenti.
Concorso cortometraggi
The Age of Rust, sab. 6, ore 11, Teatro Strehler; mar. 9, ore 21, Parco Sempione; sab. 13, ore 22.45, Teatro Strehler
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