La Val Susa e la protesta dei suoi abitanti lo riguardano. Per questo Daniele Gaglianone ha voluto raccontare in Qui «il drammatico scollamento tra Stato e cittadini» che si è consumato a pochi chilometri da casa sua
Domenica mattina, Sant’Ambrogio, Milano dorme ancora, ma Filmmaker è già sveglio per l’ultima Masterclass in programma allo Spazio Oberdan: Qui. Il documentario come punto di vista. A parlare, sollecitato da Luca Mosso, c’è Daniele Gaglianone, che partecipa al concorso con Qui, un film sulla Val di Susa e il movimento di protesta contro la TAV Torino – Lione che da 25 anni impegna il territorio. Tre ore di dibattito che passano in un baleno.
Naturalizzato torinese, intorno al 2012 Gaglianone prende coscienza di quanto la valle sia vicina, pur essendo nell’immaginario cittadino «il posto più lontano della galassia» (nelle parole di Luca Rastello che, con Binario Morto, il reportage del 2012 pubblicato da Chiare Lettere, si è occupato del cosiddetto corridoio Lisbona-Kiev). Se nel 2009 la voglia di raccontare lo aveva spinto fino in Bosnia, per girare Rata Nece Biti (La guerra non ci sarà), perché - si è detto - non provare ad andare a pochi chilometri da casa e vedere che cosa succede? «Mi considerano un regista impegnato» ha raccontato Gaglianone alla platea dell’Oberdan. «Forse è vero, ma mi sono sempre sentito a disagio in questa definizione, credo di essere inetto alla militanza; il cinema forse è il mio modo di entrare in contatto con una realtà che da cittadino avrei difficoltà ad avvicinare. In fondo, in ogni mio documentario ho sempre parlato dei fatti miei, di cose che mi riguardano».
Ma come si racconta una storia così inquinata dal luogo comune e dalla narrazione mediatica - mai tanto parziale - come si sceglie da che parte stare? Ogni scelta narrativa è per Gaglianone una scelta politica. «Scegliere di ascoltare, senza usare le persone in modo strumentale, né piegare le situazioni a una struttura che si ha già in mente, è un atteggiamento politico. Chi parla sapendo di essere ascoltato con disponibilità si aprirà fino in fondo, arrivando a parlare più con se stesso che con chi gli sta davanti». Questa è una lezione che Gaglianone racconta di aver imparato durante il lavoro all’Archivio Cinematografico della Resistenza: sapersi soffermare anche sui silenzi, per far capire a chi hai davanti che sei lì per loro. La relazione che si crea diventa così estremamente intensa. Al punto che «arriva un momento in cui te ne fotti del film che stai facendo» conclude il regista. «Il film diventa solo un pretesto per vivere qualcosa che altrimenti non avresti mai vissuto. E quando succede è l’estasi assoluta».
Cinema politico. Nel rispetto dell’altro, la persona filmata. Ma senza nascondersi. Lo sguardo del regista è presente in ogni inquadratura, nella decisione di restare su un soggetto, soffermarsi su una pietra dove qualcuno vede il volto di Gesù e provare a cercarlo, nella scelta di zoomare, nello stile del montaggio. È il linguaggio del cinema che si fa portatore dello sguardo dell'autore. Regista e personaggi condividono lo stesso spazio, sono entrambi sulla scena con il corpo: per Gaglianone è importante «rendere la propria condizione psicofisica tangibile», senza mascherare le reazioni alle situazioni che vive quando filma. Per questo non ama preparare le scene, vivendo le esperienze per la prima volta, per questo è lui stesso operatore, o almeno di una delle due videocamere che usa, non cercando necessariamente le immagini più belle, «ma sempre le immagini giuste» aggiunge Luca Mosso. «Molti miei colleghi mi considerano per questo un documentarista di serie B» spiega Gaglianone. «Dicono che faccio “sopralluoghi”, non film, ma il mio cinema è la risposta alla domanda che mi faccio: come sto io al mondo, come ci sto in relazione con gli altri».
Si affronta poi il ruolo della critica e la reazione al giudizio sul suo film. È stato scritto che Qui «manca di regia», che «non basta far parlare la realtà per fare un documentario», ma «la realtà da sola non parla, ogni racconto presuppone una presa di posizione» chiosa l’autore. «Per questo film ho fatto un lavoro sul linguaggio talmente sottile ed elaborato che lo spettatore non percepisce il mio intervento ed è disarmato davanti ai racconti. Volevo prendere posizione, ma senza fare un volantino».
Gaglianone pone il problema della visione e dell’interpretazione fin dalla prima scena di Qui, che viene proiettata durante la Masterclass. La protagonista è Gabriella, esponente del gruppo dei Cattolici per la vita della Valle, donna vulcanica, che usa la preghiera come mezzo di lotta, «eppure dura e determinata nelle sue dichiarazioni». L’hanno accusato di aver filmato solo “i buoni”, i moderati, dice. Eppure Gabriella con garbo esprime posizioni di scarsissima moderazione. E la sua gentile e fiera opposizione a quel che è stato fatto alla sua terra e alla sua gente spiega più di molti servizi informativi. Ce ne sono stati molti sulla questione, forse quello che è sempre mancato è stata la volontà di comprendere. «Qui è ovunque e racconta dello scollamento drammatico ed evidente che in Italia, ma anche nel mondo Occidentale, è avvenuto tra cittadini e autorità» conclude Gaglianone. «È un film che parla di rivolta, dello spaesamento di chi ha dovuto constatare come una certa idea di democrazia e di Stato non esista più, o forse non sia mai esistita: per questo per loro la lotta è divenuta l’unica possibilità di agire».
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