FILMARE LA RIVOLUZIONE

FILMARE LA RIVOLUZIONE
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Si parla di rivoluzione nei film che vediamo questi giorni, rivoluzioni presenti e passate come in The Revolution Won't Be Televised, rivoluzioni che hanno ua manciata di anni ma che  hanno tracciato una cesura profonda secoli nella storia del presente come le primavere arabe (in questo caso la Tunisia) nel film d'esordio di Leyla Bouzid (À peine j'ouvre les yeux). 

Cosa significa oggi filmare queste rivoluzioni, cercarne l'anima irrequieta e multiforme a distanza ravvicinata? Si è parlato tanto e a lungo e in molti modi delle “primavere arabe”, ciascuna ha preso la sua strada con momentanei esiti, momentanei perché ogni cambiamento vero, profondo è fatto di tanti passi e tappe. Ed è un segnale forte vedere come nonostante la tortura e la violenza messa in atto da certi regimi, come quello egiziano di Al Sisi, ci siano tanti giovani soprattutto che non si arrendono e continuano a lottare rischiando la vita –  ciò di cui è stato vittima  Giulio Regeni purtroppo non è un fatto isolato, in Egitto si contano centinaia di  scomparsi e vittime di violenze poliziesche. Dove indirizzare dunque le proprie immagini, cosa cercare lungo i bordi della realtà?

 

Le primavere hanno avuto molte immagini, si è filmato, diffuso in rete, cercando quasi di coinvolgere anche il resto del mondo spesso troppo sbrigativo nei suoi giudizi, sia con gli eccessi di entusiasmo che con le generalizzazioni. E la rete, i social, i blogger sono stati protagonisti di queste battaglie.

Quello che però permette il cinema è costruire una distanza che è al tempo stesso una forma accentuata di prossimità. Dei personaggi, delle storie, un vissuto che va oltre il flusso  delle immagini che finiscono per apparire tutte uguali. Le primavere si sono intrecciate all'apparizione di nuove generazioni di cineasti – come le due giovani registe di questi film – che hanno reso materiale narrativo quanto stava accadendo, in contemporanea, non a distanza di anni condividendo con i protagonisti coetanei dei film le stesse esperienze. In entrambi per esempio, l'arma con cui parlare e gridare il diritto a un cambiamento è la musica, rapper i due  attivisti senegalesi di The Revolution Won't Be Televised, cantante rock la diciottenne Farah, il personaggio del film di Leyla Bouzid. Uno documentario, l'altro narrativo, entrambi profondamente radicati nel tempo presente e nella ricerca di un futuro. Ecco, questo essere nel proprio tempo, è una delle grandi scommesse del cinema, e i registi che scopriamo al festival in questi giorni cercano di raccoglierla al meglio opponendosi così anche agli stereotipi delle generalizzazioni. La loro voce è quella di tutte le giovani generazioni che continuano a chiedere la libertà di scegliere la propria esistenza, di una realtà complessa e piena di contraddizioni, in cui non ci sono super eroi ma qualcosa di più forte ancora: l'ostinazione di provarci sapendo che non sarà facile.

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