Come nasce un documentario e, prima ancora, un documentarista. Daniele Incalcaterra ci racconta come si è avvicinato alla macchina da presa con cui da oltre trent’anni mette a fuoco la realtà, senza mai nascondere la sua presenza e il proprio punto di vista
Robert Bresson diceva: «Si distingue il vero dalla sua efficacia e dalla sua forza», a ricordarci che non si racconta bene la realtà se non investendola di un punto di vista preciso, personale, marcato e riconoscibile. Il documentario non è semplice ripresa, ma interpretazione del reale, in cui il regista coglie il desiderio delle persone di parlare di sé. Nel lavoro trentennale di Daniele Incalcaterra, a cui viene dedicata quest’anno la retrospettiva di Filmmaker, ritroviamo tutto questo: efficacia tematica e forza narrativa, unite in una chiarezza di intenti preliminare da cui non si può prescindere.
Quando ha smesso di fare il fotografo per diventare regista di documentari?
Era il 1984 e mi trovavo a Parigi. Fino a quel momento avevo realizzato diversi reportage fotografici, in un’epoca in cui era ancora possibile intraprendere grandi viaggi. Mi occupavo di seguire sia gli abitanti, sia la natura dei luoghi visitati, come feci nel deserto del Sahara con i Tuareg. Una sera, nel marzo di quell’anno, tornando a casa trovai la porta di ingresso scassinata, tutte le mie macchine erano state rubate. Non avevo più alcun materiale fotografico, ma mi resi conto di non voler riacquistare più nulla: al tempo stavo per terminare il mio primo corso di cinema diretto presso gli Atelier Varan, e così mi dedicai definitivamente al documentario.
C’è un legame molto stretto tra la sua vita e i suoi lavori.
Quasi tutti i film che ho girato sono ambientati in Paesi in cui ho trascorso molto del mio tempo. Ho vissuto per undici anni consecutivi in Argentina e Terra d’Avellaneda nasce proprio da quanto vidi in quel periodo. Furono anni molto delicati della storia Argentina, gli anni della dittatura militare e dei desaperecidos. L’idea di lavorare sulla memoria dell’oblio in una società che usciva da un lungo periodo di violenza di Stato nasceva anche dall’aver avuto amici scomparsi in seguito agli arresti o torturati e in seguito rilasciati. Lo stesso per Place Rouge, ambientato a Mosca. Il mio vissuto in ciascun luogo è fondamentale.
E Repubblica Nostra?
Repubblica Nostra divenne un modo per rientrare in contatto con il Paese in cui sono nato, ma nel quale avevo vissuto pochissimo. In uno dei viaggi precedenti le riprese del film ero entrato in contatto con la realtà milanese, una città particolare per l’Italia, dalla quale nel corso della Storia sono iniziati diversi cambiamenti. A Milano è iniziato il Fascismo, ha mosso i primi passi il Partito Socialista e anche Berlusconi. Lo stesso avvenne con Mani Pulite e con le elezioni del 1994. Mi interessava capire cosa avrebbe fatto il partito vincitore dopo questi processi, che cambiarono il panorama politico dalla base.
Che lavoro preparatorio ha svolto prima delle riprese?
Bisogna avere chiaro cosa si vuole raccontare, mantenendo la consapevolezza che un punto di vista forte e personale è fondamentale. Io cercavo candidati nuovi per entrambi gli schieramenti, il PDS e Forza Italia, che avessero un doppio ruolo, che mostrassero il cambiamento del fare politica in quegli anni. Da qui arrivai a Gianni Pilo, uomo dei sondaggi, e Alvaro Soperchi, proveniente dal mondo operario dell’Alfa Romeo. Non erano politici di carriera, come poteva essere nel periodo della Democrazia Cristiana o del Partito Comunista. Allo stesso tempo avevo scelto di seguire alcuni processi che mi interessavano grazie all’incontro con Borrelli, Di Pietro e gli altri magistrati coinvolti.
Ha avuto problemi nel nostro paese per questo film?
Repubblica Nostra non è un documentario di denuncia. All’epoca volevo solo raccontare come Berlusconi ha vinto le elezioni del ‘94. Una volta concluso il film però nessuno ebbe il coraggio di farlo passare in forma ufficiale, mentre venne distribuito normalmente in altri paesi come la Francia. In Italia non c’è un problema di censura, ma di autocensura.
Il racconto della società e della Storia non prescinde dai singoli: in Terra d’Avellaneda segue da vicino situazioni personali e dolorose. In questo caso come si costruisce il rapporto con il soggetto?
Mi avvicinai prima di tutto agli antropologi dell’Equipo Argentino. Osservando il loro lavoro, mi resi conto che ciascuno scheletro mentre veniva ricomposto parlava, la storia dello scomparso emergeva man mano, ricostruendo il rapporto con la famiglia. Avevo già deciso di seguire il percorso di un figlio o di una figlia alla ricerca dei genitori, e non il contrario, quando entrai in contatto con Karina Manfil. Iniziate le riprese si instaurò un rapporto di reciproca fiducia e empatia, tanto che per Karina stessa il film divenne un aiuto in più in questa sua necessità profonda di ritrovare i genitori e poterli seppellire. È fondamentale però che il soggetto senta questo bisogno, un desiderio di raccontarsi.
Come si riesce a fare accettare la macchina da presa agli intervistati?
La macchina da presa deve essere sempre accettata, non bisogna pensare che sia necessario nasconderla o farla sparire. I soggetti devono convivere con essa, come con il cameraman o il fonico con cui giri il documentario. È fondamentale la loro apertura: in quel momento ti stanno dando una parte della loro vita che interpretano insieme a te durante le riprese. In questo senso la macchina è un acceleratore: il processo che si sta narrando, spesso anche violento, non resta indifferente al lavoro del documentario. Conta essere chiari con i soggetti di cui stai parlando e avere in mente il perché delle scelte narrative. A quel punto viene accettata la manipolazione che nasce durante la lavorazione e il montaggio e i personaggi si riconosceranno una volta visto il film proiettato.
Le difficoltà che ha incontrato nel nostro Paese a realizzare documentari sono sintomatiche di un disinteresse italiano per il genere?
Il documentario ha una struttura narrativa cinematografica e questo va capito. Si possono avere stili, strutture e forme diversissime, come nella fiction. Fermandosi all’idea di star raccontando il reale, si sbaglierebbe. Il punto di vista non può essere escluso dal documentario, più è preciso e forte più si entra in una struttura cinematografica. È un problema quando si costruiscono documentari avendo in mente programmi televisivi, si imbastardisce un genere senza comprenderlo e sostituendolo con altri prodotti. In più, in Italia abbiamo sempre avuto una mancanza di programmazione di film documentari, che non può essere compensata con i reportage. Le storie, le lunghezze del documentario non hanno trovato e non trovano spazi nelle televisioni e al cinema, seppur abbia visto opere di giovani registi italiani di qualità. Manca il sostegno a questa forma di narrazione e di protesta che è tra le più libere e importanti per il racconto della realtà.
FaSinPat – Fábrica sin patrón diDaniele Incalcaterra, I Set della Realtà- Retrospettiva, ven. 4 dicembre, Spazio Oberdan, ore 17.30