La regista israeliana Efrat Corem costruisce con il suo film d’esordio un’inconsueta immagine di Israele. Sorpresa al Festival di Berlino, Ben Zaken rappresenta il dramma di tre generazioni confinato in una casa del quartiere popolare di Ashkelon
È nella città in cui è nata e cresciuta che la regista Efrat Corem (Ashkelon, 1979) ambienta il suo primo film, con il quale mette a fuoco i conflitti familiari dei Ben Zaken, alle prese con le difficoltà economiche e l’educazione della figlia Ruhi, di undici anni. Suo padre, Schlomi, non riesce a occuparsene e a essere presente come vorrebbe. Assieme ai due vive la sempre affaccendata madre di Schlomi e Leon, il suo fratello maggiore.
Il film segue i tentativi di Schlomi di provvedere alla figlia, di regolarsi e di cambiare lavoro, ma il giovane padre non riesce a dare una svolta alla propria vita. I suoi sforzi sono insufficienti, ed è costretto a chiedere aiuto al fratello, deludendo infine anche lui.
Riconosciuta la propria incapacità di crescere la figlia nel modo migliore, Schlomi deciderà di affidarla alle cure di una Casa dei Bambini.
Nel sobborgo-ghetto di Ashkelon, Efrat Corem non lascia spazio alle emozioni. Con uno stile spoglio e sobrio racconta la vita in un quartiere dove non ci si può fidare dei propri vicini, dove persino il rabbino fa paura, dove le urla e gli spari sono all’ordine del giorno. Ma l’autrice evita di parlare del più scontato conflitto con gli arabi palestinesi, e si concentra sui drammi all’interno delle quattro mura. Sia la figlia Ruhi che Schlomi intraprendono personali lotte e ribellioni per cercare le attenzioni degli altri.
Tuttavia attraverso la contestazione e la disubbidienza la ragazzina cerca l’interesse del padre, mentre Schlomi con la sua depressione manifesta l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità. È la paura che lo governa, dall’ infantile idrofobia al pavido rifiuto di un litigio “condominiale”, la vita di Schlomi è scandita dal timore dell’altro, della vita stessa. Non a caso ha sempre sognato di vivere in un kibbutz, o essere trasferito in una Casa dei Bambini, senza preoccupazioni o vincoli di scelta. E a causa di questa immaturità, ci si chiede, mentre Schlomi e Ruhi camminano mano nella mano, se sia il padre ad accompagnare la figlia, o viceversa.
È attraverso una dialettica del coraggio che Leon e Schlomi, i due fratelli, sono messi a confronto. In questo senso, Leon ha sempre dimostrato di prendersi cura degli altri, facendosi carico delle difficoltà del fratello, offrendogli delle possibilità di lavoro. Probabilmente è anche attraverso la religione che il fratello maggiore ha trovato la sicurezza, ma quanto basta per dare risposte convincenti? Tutto il film viene attraversato dal continuo confronto con la religione. Un Dio unico, al volere del quale dobbiamo sottostare e affidarci, un Dio che proibisce, un Dio che appunto, può fare paura. E il pessimismo che permea la storia si concretizza nella sentenza del rabbino, che stabilisce che “era meglio che l’uomo non fosse venuto al mondo”.
Come ci si comporta di fronte a ciò, in un luogo in cui i sogni sono incubi, e in cui un’aggressiva ribellione sembra l’unica maniera per non concedersi alla depressione? Il problema è quando si è troppo stanchi per ribellarsi, per lottare assieme, per sopravvivere. Forse però è anche quando non si lascia spazio alle emozioni.
Ben Zaken, di Efrat Corem, Concorso Nuovi Sguardi, dom 22, ore 21:00, Spazio Oberdan
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