L’intervista del Daily a Yosef Baraki, ventiseienne regista di Mina Walking, in concorso Finestre sul Mondo. Applaudito e premiato in tutto il mondo, il film che segue per le strade di Kabul la dodicenne Mina, è stato da poco distribuito in Afghanistan, e ha reso orgoglioso un intero popolo
Nato a Kabul nel 1989 da padre afghano e madre cecoslovacca, a due anni Yosef Baraki si è trasferito in Europa e nel 1998 è emigrato con la famiglia a Toronto, in Canada. Dopo essersi diplomato in cinema, ha deciso di girare indipendentemente il suo primo film ambientato a Kabul, Mina Walking, racconto duro e filmato in maniera documentaristica della vita di una ragazzina (Farzana Nawabi) che da sola si prende cura di suo padre, un eroinomane, e del nonno malato.
Da quando hai capito di essere attratto dall’Afghanistan come regista?
È la cultura nella quale ho vissuto, grazie a mio padre, e sebbene sia stato lontano dall’Afghanistan, quella realtà era dappertutto nella mia vita. Appena diplomato avevo voglia di esplorare un certo stile realistico e provare a capire che cosa si poteva ottenere con pochi semplici strumenti. Senza luci per esempio, ma solo con una videocamera e un microfono, in assenza di sceneggiatura e quindi con molta improvvisazione.
Il mio interesse per l’Afghanistan e questa idea stilistica si sono uniti: laggiù avrei potuto fare le mie scoperte, sulla mia cultura, sulla mia estetica, su me stesso.
Avevi già in mente la storia che volevi raccontare?
Ho visitato l’Afghanistan due volte prima di iniziare le riprese, e la seconda ho fatto amicizia con dei bambini per strada, giovanissimi, ragazzi di otto o nove anni, come quelli nel film. Devono lavorare tutto il giorno per cercare di vendere qualsiasi cosa, per dare un contributo alla famiglia. Ero molto interessato alle loro storie, rappresentavano un modo perfetto per esplorare quella cultura: essendo bambini, e conoscendo bene l’inglese per poter dialogare coi clienti, avevano accesso pressoché ovunque. Grazie a loro ho potuto visitare scuole, mercati, case. È stato allora che ho capito di dover scrivere una storia su una di queste ragazze, seguirle e disegnare un ritratto molto realistico.
Come sei arrivato a scegliere Farzana?
Prima del film non era un’attrice, i suoi genitori hanno fatto del teatro, e me l’hanno presentata degli amici. L’ho intervistata e ho scoperto che il suo carattere era molto simile al personaggio di Mina. C’è grande differenza a Kabul fra le ragazze che vivono in strada e quelle più “borghesi”. Queste ultime sono solitamente molto tranquille e riservate, cercano di non farsi notare, invisibili. Le altre invece, per poter vendere a chiunque, hanno sviluppato un atteggiamento aggressivo, estroverso, per catturare l’attenzione di tutti. Così, tutte le ragazze che avevo conosciuto per la parte, prima di Farzana, erano molto silenziose, e sarebbe stato difficile far uscire da loro il personaggio di Mina. Farzana invece è una ragazza così aperta e rumorosa, e avrebbe potuto recitare quella parte, che è un ruolo difficile perché è sempre al centro del film, in ogni inquadratura. Siamo rimasti in contatto con lei, e ora sta cercando di portare avanti la sua carriera come cantante, è già conosciuta a Kabul.
In quanto tempo è stato girato?
In diciannove giorni pieni, senza interruzioni. In questo periodo Farzana non è andata a scuola.
Quanto del girato era improvvisato?
Avevo scritto la struttura della storia, sapevo dove volevo andare, ma volevo lasciare un’apertura, per far entrare il realismo della quotidianità della strada, così da poter inserire le scoperte di ogni giorno.
Puoi citarmi qualche esempio?
In un film che parla di un personaggio così in un Paese in guerra a volte è difficile trovare momenti di felicità, di leggerezza, o occasioni di risata: tutti questi elementi mancavano in fase di scrittura. Sono stato molto sorpreso di trovarli durante le riprese. Un giorno stavamo girando in una scuola e stavo pranzando, ho sentito un canto rumoroso di bambini, ho preso la telecamera e mi sono messo a filmare. Un momento che ha aggiunto una luce alla storia. Ancora, quando ho filmato un gruppo di ragazzi urlare contro alcune bambine per decidere se fosse meglio esser maschi o fanciulle.
Un’immagine che funziona in un film che affronta anche la posizione svantaggiata delle donne.
Se vai in Afghanistan non vedi neanche una donna in strada. Per me quindi era molto importante mostrare una figura femminile che contraddicesse la tipica immagine della donna debole. Quando si va in strada, a guardare questi bambini, i ruoli sono invertiti. Le ragazze, per questioni di sopravvivenza, sono diventate più forti dei maschi. Mina da sola si prende cura della propria famiglia, lavora e va a scuola.
Com’è stato gestito il set?
Nessuna sequenza è stata messa in scena. Erano location reali. E la maggior parte del film è girato con attori non professionisti. Per esempio non abbiamo inscenato il momento della zuffa al mercato. In quel caso avevamo chiesto all’attore che interpretava Samir di interagire con i clienti, cercando la polemica, ma non mi sarei mai aspettato che tutti gli uomini del mercato si sarebbero messi a litigare. Non era pianificato, è stata una situazione davvero paurosa.
E invece la troupe da chi era composta?
Ho lavorato con cinque o sei studenti universitari di Kabul sotto i vent’anni, tutti interessati al cinema: mi hanno aiutato per questioni tecniche, di sound design, o a trovare le location. Sono stati utili per coordinare il set e garantire la nostra sicurezza, anche perché dovevamo stare nascosti.
È stato pericoloso girare a Kabul?
C’è sempre un margine di rischio, vista la grande diffidenza della gente davanti a una macchina da presa: hanno visto immagini che documentano solo un lato negativo dell’Afghanistan. Per ridurre il rischio tiravo fuori questa piccola videocamera solo quando necessario. Spesso dovevo nascondermi per filmare le scene di strada dai tetti con lenti lunghe. La visuale dall’alto mi permetteva di osservare ogni cosa; stare in mezzo alle persone in alcuni casi avrebbe guastato l’illusione di realtà, inserendomi prepotentemente nel contesto.
Stai lavorando a prossimi progetti a Kabul?
Vorrei fare un altro film ambientato in Afghanistan, concentrandomi magari su una realtà diversa, per esempio andare nelle montagne a nord. Ci sono molte tradizioni diverse, ma sto aspettando di capire un po’ gli sviluppi della situazione, per questioni di sicurezza. Kabul in quanto capitale è più sicura, anche se con tutta quella gente aumentano i pericoli, e qualsiasi cosa può accadere. Ma anche la provincia di Panjshir è tranquilla, e lì è dove vorrei andare. È pieno di bellissimi luoghi naturali e vorrei raccontare i modi di vivere della gente di montagna, per niente moderni, e capire come sono le loro vite. Mi piacerebbe anche ambientare una storia in Canada.
Continuando a esplorare quest’estetica realista?
Continuerei con questo stile, magari correggendo qualcosa che non mi è piaciuta in questo film. Ma vorrei provare anche idee diverse, ho ventisei anni e sento che devo ancora trovare la mia voce, e credo anche che storie diverse abbiano bisogno di stili diversi.