Il documentario Our City di Maria Tarantino, domani in concorso Lungometraggi, presenta una Bruxelles poco conosciuta e multiculturale. La regista ci racconta la genesi del film e il suo sguardo sulla città
«Hallo, I’m Brussels.»
Our City è il monologo di una città sempre diversa. Cambia a seconda dei flussi migratori che la attraversano di anno in anno. Con tre lingue ufficiali, il francese, l’olandese e il tedesco, Bruxelles è il centro del mondo. Camminando per le sue strade, oltre a queste lingue, si possono sentire l’italiano, lo spagnolo, l’inglese, l’arabo e il cinese senza essere per forza in presenza di comitive di turisti.
«Io e la troupe siamo stati per tre anni nei cantieri, notte e giorno, a fianco dei muratori che ci hanno portato sui containers e offerto momenti di straordinaria naturalezza.» ci racconta la regista Maria Tarantino, che da vent’anni vive in Belgio.
Our City porta sullo schermo gli aspetti inattesi di una città la cui immagine giunge abitualmente attraverso i meeting dei politici europei. Vediamo i muratori dei cantieri in centro, il poeta iraniano rifugiato politico, il musicista asiatico, gli indiani che giocano a cricket, la donna nigeriana che fabbrica collane, l’uomo senza volto perché senza documenti, gli ambasciatori degli Stati Uniti e l’agente immobiliare.
La macchina da presa vaga nello spazio e segue delle linee guida, cercando di afferrare l’identità complessa della città.
Da dove viene la prima ispirazione per il documentario Our City?
Alla Mostra di Venezia del 2008 ho visto una commedia musicale malesiana improbabile, dal titolo Sell Out: una storia satirica con musica e danze che voleva denunciare lo strapotere dei gruppi d’informazione del paese. Passeggiando per un viale di Bruxelles mi sono chiesta perché non fare una commedia musicale con suoni brasiliani in questa grigia città.
Com’è arrivata allo stile documentaristico?
Il primo progetto lo abbiamo chiamato Au boulot: è tempo di sognare, perché volevamo gridare ai lavoratori che il vero lavoro è quello dell’immaginazione. Dall’idea iniziale della commedia musicale, siamo poi passati alla danza delle macchine da presa sulla realtà e alla coreografia controllata del montaggio, cercando il lato surreale di Bruxelles. Dal filmare chi danzava sui tetti ci siamo ritrovati a filmare chi sui tetti ci lavora!
Qual è la differenza tra Bruxelles e le altre capitali europee?
Questo film si poteva fare anche a Londra, ma Bruxelles è una città che non ha un’identità forte come le altre: qui si parlano due lingue, il francese e il fiammingo, e le loro due comunità sono in continuo conflitto. Non è come essere a Londra, dove l’identità britannica è sempre riconoscibile e l’emarginato è colui che non si adatta a quel modo di vivere. Al contrario Bruxelles è un concentrato di identità molteplici e multiformi.
Può farmi un esempio?
All’interno del film la scena della scuola è quasi una provocazione: gli studenti, provenienti per la maggior parte dall’Africa, pongono la questione della cittadinanza belga. Seppur autoctoni, nessuno li considera belgi.
Nel film ci sono delle chiare prese di posizione rispetto alla città e alla società.
Ho voluto fare un film non di genere informativo tecnico-statistico su una città, presentando meri dati e percentuali, ma mostrando Bruxelles come la vedo io, quella dei palazzi di vetro “europei”, ma anche quella multiculturale il più delle volte invisibile.
Il mio obiettivo è suscitare nello spettatore delle domande necessarie. Preferisco non dare risposte, ma ulteriori elementi di complessità, che continuino a stimolare dubbi e domande. Anche l’industria edilizia si fonda su un sistema di schiavitù di migranti.
Ci sono gli operai turchi, i bulgari, i portoghesi… Tutti loro sono obbligati a viaggiare da un paese all’altro alla ricerca costante di un lavoro.
La macchina da presa viaggia nello spazio e nel tempo senza mai porre dei blocchi alla narrazione. Come avete gestito la fase del montaggio?
Questo è un genere di film che si riscrive in post-produzione perché non c’è un filo rosso, ma delle idee guida che hanno ispirato le ore passate sul campo con macchina da presa in spalla. Il suono ha avuto grande importanza, perché in base alla tonalità abbiamo scelto le sequenze: dopo una scena di caos sonoro sentivamo di dover inserire la calma e la tranquillità, oppure dopo momenti di riflessione era necessario del divertimento al luna park.
Come s’inserisce Our City nella sua produzione precedente?
Sono stata giornalista freelance in Belgio, una professione che mi ha permesso di conoscere la realtà di questa piccola nazione e di entrare anche nelle istituzioni europee. L’avvicinamento al cinema è avvenuto tramite un mio programma televisivo. Da lì ho cominciato a realizzare documentari per la televisione incentrati sul luogo del carcere e sulla figura del carcerato, attraverso la ripresa di progetti teatrali che miravano alla denuncia della condizione di non-libertà. Our City è una riflessione più in grande sulla condizione umana: pensiamo di essere liberi, ma lo siamo davvero?
Il film dà voce a una delle tante persone che aspettano da anni quei papiers che forniscano prova della sua esistenza.
C’è una grande asimmetria tra il nostro documento d’identità, la nostra necessità di averlo e il documento di cui ha bisogno una persona che vuole scappare da un luogo dove è in corso una guerra o vi è grande instabilità politica. L’iracheno ha bisogno di un documento per viaggiare e vivere una vita normale in Occidente, ma lo avrà solo pagando a caro prezzo.
Our City, Maria Tarantino, Concorso Lungometraggi, dom 13, ore 20.30, Teatro Strehler