Tre generazioni di artigiani alle prese con le trasformazioni della città e del mercato, i Ciliberti custodiscono il ricordo di un passato mitico che si traduce oggi in meccanica degli affetti
Nel quartiere San Cataldo di Bari tutti conoscono i Ciliberti. In un luogo curioso «a metà fra uno sfasciacarrozze e il deposito di un rigattiere» si intrecciano tre generazioni di meccanici e inventori. Fabrizio Bellomo con L’albero di trasmissione, che viene presentato in Prospettive, ci trasporta in un’oasi nel cuore della modernizzazione urbanistica che ha stravolto il microcosmo del quartiere fra gli anni Sessanta e Ottanta. Seguendo la sua macchina da presa incontriamo Rocco, nonno saggio e visionario impegnato a trasmettere al nipote il suo sapere e i due figli, Simone ed Emilio, commercianti di sculture costruite con materiali riciclati.
Tre generazioni di Ciliberti legate al ricordo di più di trent’anni prima, quando dalla loro officina uscì un’automobile in anticipo sui tempi, un prodotto del futuro: inossidabile, ecologicamente affidabile e sicura. A causa dei costi di omologazione però, l’oggetto venne venduto, ma i pezzi dell’antica vettura sono ancora lì, sparsi fra i materiali da riciclare nel deposito della famiglia.
Quello di Fabrizio Bellomo è un documentario che cerca storie nascoste, che non si fanno trovare. Realtà dimenticate, destinate a scomparire. «E i Ciliberti non sono nemmeno la parte più debole della stratificazione sociale che si è venuta a creare nella zona» sostiene il regista. «Sopravvivono circondati dal caos edilizio che ha stravolto quella parte della città. Mi affascinava quell’aspetto di archeologia industriale, una piccola comunità come testimonianza di qualcosa che non c’è più. L’industria è una macchina con i suoi ingranaggi, ma anche la famiglia può essere vista come un insieme di meccanismi. Le dinamiche dei Ciliberti sono quelle di qualsiasi altro nucleo, in questo caso solo un po’ più sballate».
Del resto ancora oggi è proprio quella macchina costruita e smantellata negli anni Ottanta, il collante affettivo tra il padre e i due figli: «Non è importante sapere con certezza come sono andate le cose, se l’automobile è esistita davvero o in che modo» ci dice il regista. «Quello che conta è il legame che ha prodotto all'interno della famiglia. Ora è diventata mitologia, una leggenda metropolitana».
Un’utopia del passato, una mitizzazione dei ricordi attraverso un racconto nostalgico di tempi che non ci sono più, scandito dal suono di un carillon rotto.
È sulle mani dell’anziano Rocco che si apre il film, mani ossessionate dal lavoro, che devono sporcarsi. «Un’ossessione simile a quella che deve avere anche ogni artista» prosegue Bellomo. Sono le mani di un inventore, di un meccanico, condannato a costruire oggetti, ma anche a produrre umanità, modellare la discendenza con i propri valori e con i propri dubbi. Rocco usa le mani, trasmette il suo sapere familiare a figli e nipoti, lavora come fanno gli artigiani che modellano i pezzi di ricambio. Lo fa in modo benevolo e amoroso, paziente e delicato, con grazia. Procedendo per tentativi ed errori, insegnando una tecnica per produrre oggetti con cui l’uomo si lega al mondo. I valori del bricoleur che si arrangia con quello che ha e non butta mai niente. Una visione che si oppone all’idea moderna di un progresso industriale ricco di certezze, di un’urbanizzazione a strati che crea disordini edilizi, incurante del proprio percorso. E senza dubbi: l’ingegnere ha occhi solo verso il futuro.
L’albero di trasmissione di Fabrizio Bellomo, Prospettive, sab 6 dicembre, ore 19.30, Cinema Arcobaleno, Sala 100
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