Tre sono i protagonisti di Comandante, film del regista milanese Enrico Maisto (classe 1988), presentato nel concorso lungometraggi al MFF. Due sono ripresi continuamente: Felice, ex militante di Lotta Continua e Francesco, che di cognome fa Maisto. È il padre di Enrico, per anni è stato giudice di sorveglianza a San Vittore. Il terzo protagonista è il regista stesso che da dietro la macchina da presa ci accompagna, con la sola voce, in un intimo viaggio di scoperta.
Enrico interviene soprattutto per porre domande, nelle quali si sente l’urgenza di comprendere sia un periodo storico tanto complicato quanto sconosciuto ai suoi coetanei, sia il rapporto tra il padre e Felice, un’amicizia che va oltre la dicotomia degli Anni di piombo.
Hai lavorato quattro anni su questo film...
Sì perché non c’è mai stata una fase di progettazione vera e propria. È stato un lavoro in fieri senza la classica suddivisione in scrittura, riprese, montaggio. Ho sovvertito tutto alternando le fasi. Questo è accaduto perché inizialmente pensavo di fare un film su Felice e che lui sarebbe stato il protagonista. Quando ha tirato fuori ricordi su mio padre di cui non ero a conoscenza ho dato un’altra direzione alla storia. Dovevo introdurre un nuovo personaggio, ma si trattava di mio padre, non di una persona qualsiasi.
Cosa hai scoperto?
Due cose. La prima che Felice era molto più vicino di quanto pensassi all’ambiente della Lotta Armata. E poi il ruolo di mio padre. La domanda allora è diventata perché due persone teoricamente su posizioni così distanti sono diventate amiche in un periodo tanto anomalo e difficile in cui era rischioso passare da una parte all’altra.
Immagino ci siano state delle resistenze emotive da parte tua...
Direi di sì. Dal punto di vista tecnico, il film era semplice: c’eravamo io, la macchina da presa e un microfono. La principale difficoltà è stata capire che spazio e che peso dare a ciò che avevo scoperto e come fare entrare mio padre nel film. Mettersi a filmare il proprio padre è abbastanza complicato. All’inizio rifiutavo l’idea. Poi, piano piano, ho cominciato a filmarlo, ma solo da lontano. Non è stato per niente facile: da un lato c’era la volontà di sapere, dall’altro l’esigenza di proteggere lui e la sua immagine. Lo sblocco è avvenuto l’inverno scorso, quando mi sono deciso a interagire con lui. Da quel momento le riprese si sono velocizzate.
Invece ci sono state resistenze da parte di tuo padre e di Felice ?
Per quanto riguarda Felice è stato difficile più che altro il percorso filmico. Lui ha parlato con molta naturalezza di quegli argomenti scegliendo liberamente cosa dire. Le resistenze erano piuttosto verso il mezzo. Non voleva essere protagonista e non voleva diventare simbolo di un periodo o di una fazione. È un personaggio da pedinare perché cerca sempre di sottrarsi. Ci sono aspetti della sua personalità irrappresentabili. Inoltre è stato impegnativo guadagnarsi la sua fiducia. Alla fine credo si sia fatto filmare più per affetto nei miei confronti che per convinzione.
Con mio papà, una volta superate le remore iniziali, è stato più facile. Lui è un professionista della parola, ha dimestichezza con il racconto ed essendo un magistrato il suo ruolo è più definito.
Come vedevi il loro rapporto prima di intraprendere questo percorso?
Felice frequentava casa mia, giocavo con lui da piccolo. Rientrava nella schiera degli amici dei miei genitori, pur nella sua anomalia. A partire dai suoi baffoni, che mi hanno sempre colpito, rappresentava un mondo di scoperta, di fuga dalla normalità. Vedevo lui e mio padre molto semplicemente come due amici, non mi ero mai interrogato sul loro rapporto. Ed è quello che sono: amici e basta. Non sempre ci sono ombre dietro le cose.
Hai scoperto qualcosa di tuo padre?
Sì e sorprendentemente è un aspetto che ci lega. Tutto preso dall’idea di capire e mostrare che mio padre avesse delle simpatie per la lotta armata mi era sfuggito che, invece, negli anni è rimasto affascinato dalle istituzioni che ha servito, ne è diventato in qualche modo dipendente. Quello che nel mio immaginario era un giudice eretico è un giudice integrato. Non me l’aspettavo. Oltre ad aver combattuto le istituzioni ne è stato affascinato, ed io con lui.
Da dove nasce l’urgenza di fare i conti con la tua storia personale e con la Storia?
Sono figlio di due magistrati. Quando sono nato il terrorismo era finito da un pezzo, però nel 1992, avevo quattro anni, c’è stata la strage di Capaci. Era un periodo in cui i giudici continuavano a morire. Qualcosa nella mia testa deve essere scattato. È un periodo a cui sono tornato con strumenti e categorie diverse a seconda del momento: ho fatto la mia tesina delle medie intervistando due ex terroristi delle Brigate Rosse. Al liceo mi affascinava Antigone e il conflitto fra leggi scritte e l’idea di giustizia non scritta, poi all’università c’è stato Hegel con la questione del terrore rivoluzionario. In ogni fase ho cercato di capire quest’epoca che forse mi affascina perché rappresenta una sorta di evento limite in cui i confini si ridefiniscono. Come è successo nell’amicizia tra Felice e mio padre.
Concorso lungometraggi
Comandante, gio. 11, ore 20.30, Teatro Strehler; sab. 13, ore 18.30, Spazio Oberdan; dom. 14, ore 15, Spazio Oberdan
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