In un cimitero che si fa luogo di parola, anziché di silenzio, Daniele Segre ambienta Morituri, ultimo tassello di un trilogia che usa la finzione per raccontare una realtà disillusa e dallo humour nero. Oggi in concorso #FrameItalia
Nel costruire la trilogia composta da Vecchie (2002) Mitraglia e il Verme (2005)e, oggi, Morituri, Daniele Segre ci riporta idealmente nella caverna platonica che ha dato origine all’idea di Cinema. Non più incatenato, lo spettatore ha però davanti sé il compromesso che deve tacitamente accettare ogni volta in sala: quello di affidarsi a un punto di vista non suo. L’autore di Morire di Lavoro – e di tanti documentari che hanno lasciato il segno (da Volti a Je m’appelle Morando, alfabeto Morandini) – costruisce tutto il film su una inquadratura fissa frontale. Esplora così il terreno della finzione proseguendo quella ricerca iniziata con Vecchie, senza abbandonare l’attenzione per le condizioni più amare e reali della condizione umana. Morituri, sotto l’aspetto di un noir surreale, inquietante, drammatico e al contempo ironico, riporta in superficie le insicurezze e le solitudini causate dal nostro tempo.
Morituri fa parte di una trilogia iniziata con Vecchie nel 2002. Qual è stata la genesi del progetto, in parte distante dal suo abituale lavoro documentario?
Seppur distanti per soggetto dal resto della mia produzione, in questi lavori c’è sempre un rapporto forte con la realtà. Cambia solo il punto di vista. Non ci sono più persone “vere”, ma attori che recitano personaggi in una messa in scena. In tutti e tre i lavori c’è una modalità particolare di rappresentazione cinematografica per via della camera fissa e del piano sequenza.
L’arco di tempo tra il secondo e il terzo film è stato abbastanza lungo.
I dieci anni trascorsi tra Mitraglia e il Verme e Morituri non segnano una discontinuità nella mia ricerca. I film della trilogia sono espressione di cinema indipendente, progetti che nascono e si sviluppano in base al momento storico in cui prendono vita.
È inevitabile un confronto con il teatro, in particolare per l’unità spazio-temporale della vicenda.
In Morituri la forma della rappresentazione cinematografica è vincolata dalla inquadratura unica, che certo evoca un’assonanza con il teatro. La “frontalità” è una scelta che ho fortemente voluto per evitare di cadere in stereotipi che banalizzano l’espressione. Nel realizzare la trilogia, che ha un carattere di finzione, non volevo dovermi equiparare ad alcuni risultati molto lontani da me e dal mio sentire come può essere la fiction televisiva. Questa volontà estrema ha richiesto una prova molto importante alle attrici - Donatelli Bartoli, Tiziana Catalano e Luigina Agostini - capaci di gestire il ritmo interno del racconto. L’impalcatura artistica è tutta sulle loro spalle. Il film è diviso in due atti, di cui il primo è un piano sequenza. Il che vuol dire che a ogni eventuale errore si rendeva necessario ricominciare a girare dall’inizio.
Nora, Aurora e Olimpia incarnano tre diversi tipi di solitudine. Eppure fra loro non nasce una sincera solidarietà.
Morituri, a parte la storia ironica e surreale di accompagnamento, è la messa in scena di personali inquietudini e di morbosi desideri. Volevo indagare e riflettere sui quesiti che ci pone un tempo di estrema solitudine come quello contemporaneo. Non a caso è tutto calato in una location emblematica come il cimitero, dove i morti si fanno paradossalmente interlocutori silenziosi ma presenti per le tre donne. Una condizione di follia che nel finale trova apice e scioglimento.
Nel secondo tempo, quello notturno, ciascun personaggio sembra sdoppiarsi.
Questo secondo tempo, o atto, potremmo vederlo come la parte più surreale. Un registro che si traduce con un trasferimento nel reale dell’immaginazione dei protagonisti. Ha la funzione di farci scavare dentro la nostra psicologia, sondare le inquietudini per indagare sul futuro. Così, Aurora, qui nei panni di un’operaia, esclama: «vi giuro che c’ero, una volta ci sono stata!». Diventa così simbolo di una categoria che sta vivendo una grande solitudine, abbandonata perfino dai sindacati. Olimpia, la vedova, rappresenta la Morte. Nora, infine, dialoga morbosamente con le fotografie dei defunti, indossa un abito da sposa che si fa simbolo non di amore, ma di abbandono.
Una solitudine personale e di categoria?
È tutto un gioco di specchi. La quarta parete, che idealmente è composta dai loculi e quindi dai morti, diventa il punto di vista dello spettatore. Ognuno con ironia amara può calarsi nei panni dei defunti e nel controverso rapporto che le protagoniste hanno con loro.
Come ha lavorato sull’inquadratura?
Mi ha aiutato uno dei migliori direttori di fotografia del cinema italiano, Luca Bigazzi. Con lui ho potuto continuare un confronto comune iniziato in altri lavori (come Manila Paloma Blanca, nda). Luca ha dato il meglio di sé e trovato piena corrispondenza visiva al senso della vicenda. Le sue scelte fotografiche e l’illuminazione valorizzano e arricchiscono tutti gli elementi narrativi.
Come ha lavorato sulla costruzione dell’ambiente scenografico?
La scenografa Elena Bosio ha reso con grande semplicità ed efficacia le esigenze che nascevano dal testo. C’è una geometria nella messa in scena che vuole animare l’inquadratura unica, per non reiterare schemi identici a se stessi o annoiare. Il ritmo dato dal testo doveva corrispondere a quella capacità di rendere il movimento che nel cinema tradizionale è dato dalla macchina. All’inizio può essere vincolante e straniante per lo spettatore trovarsi davanti all’inquadratura “unica” e ferma, ma avevo la personale ambizione di fare in modo di superare questo “limite” per proseguire nella ricerca di un cinema diverso da quello che ho sempre fatto.
Morituri di Daniele Segre, #FrameItalia, dom 20 marzo, ore 19.00, La Dogana di Milano