«The Sky Trembles And The Earth Is Afraid And The Two Eyes Are Not Brothers...». L’ultimo lungometraggio di Ben Rivers comincia con un andamento ciclico che ricorda un passo di A Distant Episode, racconto breve di Paul Bowles. Questo pare dettare l’andamento della narrazione. L’oggetto della visione diviene subito altro rispetto al cinema tradizionale, la narrazione minimalista si sposta di continuo tra codici letterari e modalità che oscillano tra documentario e fantasia. Perform-film destabilizzante.
Lo spettatore si trova disorientato, costretto a indagare e a cercare significati altri rispetto a quelli proposti dal visibile, significati che prescindano dalla percezione sensoriale della realtà.
Non bastano i sensi e non basta fermarsi alla ricerca di un solo senso, univoco e rassicurante. Allo spettatore si richiede uno sforzo di ricerca che chiami in causa direttamente le categorie estetiche d’interpretazione della realtà, un reale che non è sufficiente vedere ma che bisogna continuamente approfondire.
Interessante lezione circa la dovuta distanza con cui si dovrebbe guardare al presente che viviamo ogni giorno. Metafora di una metafora che prende in considerazione i limiti entro cui questa figura retorica si definisce. Il linguaggio e l’immagine.
La figura del linguista di Bowles e quella del film-maker di Rivers sono non solo soggette alle stesse sorti, ma la seconda risulta essere estensione della prima.
L’incomunicabilità prescinde il piano del linguaggio per inghiottire anche la sfera delle immagini. Una straordinaria dichiarazione di impotenza dell’autore che poco o nulla può sulla complessità del reale, se non afferrarne qualche traccia che vada, inquadratura dietro inquadratura, a fornire una possibile interpretazione.
La complessità della realtà si riflette sulla complessità della trama stessa, dove il cambiamento di registro coincide con un radicale cambiamento del punto di vista narrativo.
Non più dunque la realtà del regista che gira un film, ma il punto di vista dei suoi aguzzini, che dopo averlo rapito e dopo avergli tagliato la lingua, lo vestono di lattine costringendolo a ballare per il proprio diletto.
Altri due fulcri attorno ai quali verte la riflessione di Rivers sono la fondamentale relazione con ciò che è altro da noi, dalle nostre categorie di pensiero e rispetto alle nostre immagini.
Il filmmaker che, abbandonato il suo set, finisce per essere rapito e trasformato nel “dancing king of cans” viene consegnato dai suoi carnefici all’ineluttabilità di un’identità nuova e diversa, a una non-identità che lo trasforma in poco più di un oggetto semovente.
Se da un lato è evidente che il regista, divenuto il “dancing king of cans” offre un duro spunto di riflessione sulla natura del ruolo dell’artista, altrettanto significativo è ciò che gli viene detto quando uno dei rapitori dice: «You came here and circled around trouble, you looked for it until you find it, you found what you were looking for.».
L’allegoria riguarda il presente storico post colonialista che ha sancito in maniera netta una divisione culturale tra occidente e, in questo caso, Nord Africa islamico. Ci troviamo dunque davanti all’urgenza di un discorso sul ruolo del linguaggio, sui labili e variabili concetti di identità e supremazia culturale, temi già fortemente radicati nelle pagine di Bowles e che divengono per Rivers e per noi sconvolgenti pungoli di richiamo al presente.
Il merito di Rivers è quello di mostrarci l’inadeguatezza delle definizioni date: la definizione di rappresentazione e quella di oggetto della rappresentazione, il soggetto e l’oggetto di uno sguardo.
Definito che cosa sia l’Occidente, il resto ne deriva per esclusione, per negazione; un pensiero formale negativo sulla diversità che dilania e accentua questa spaccatura culturale ed esaspera la reciproca incomprensibilità: the two eyes are not brothers.
Questa grande ed elegante metafora, che ci presenta Rivers, in forma di “distant episode”, si insinua e colpisce nel vivo le nostre piaghe aperte di Occidente, forse ormai ineluttabilmente costretto a dover rendere conto quantomeno a sé stesso della sua legittimazione, del suo linguaggio e della sua identità.
*Si è laureata in Scienze Umanistiche per la Comunicazione, indirizzo Teatro e spettacolo, presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sull’accoglienza critica italiana a Pieta (Pietà, 2012) di Kim Ki-duk. Nel 2012 ha frequentato il Sae Institute dove ha ottenuto un diploma in Electronic Music Production. Ha lavorato per la casa editrice ed associazione culturale AlboVersorio. Collabora con i-Filmsonline
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