Uno spettacolo cui è impossibile restare indifferenti. Abbiamo seguito, da spettatori, la sfilata dell'orgoglio LGBT che si è tenuta a Milano. Diventandone inevitabilmente protagonisti
Il Pride milanese, la sfilata di orgoglio LGBT, ha il suo ritrovo in Piazza Duca D'Aosta di fronte alla stazione centrale, alle 16 di un sabato pomeriggio molto caldo. Il percorso previsto è breve, si passa per via Vitruvio, si svolta in via Settembrini, poi Pergolesi per arrivare a corso Buenos Aires, la più esotica delle arterie milanesi che porta a Piazza Oberdan nel cuore del quartiere di Porta Venezia, da anni ormai il quartiere gay della città. Le parate hanno sempre un fascino particolare, questa più delle altre: qualcosa che deriva dal Carnevale unito alla voglia di mostrarsi per far sapere, per esibire richieste pubbliche, per chiedere diritti. Il Pride è entrambe le cose, il che lo rende uno spettacolo a cui è difficile rimanere indifferenti, un'esperienza visiva molto stimolante. Nelle parate la differenza fra chi guarda e chi è guardato è molto fluida, si può decidere di essere protagonisti della festa e un attimo dopo spettatori; basta cambiare posto, mettersi ai lati della strada fermandosi, oppure rientrare dentro, farsi prendere dalla musica sparata dei carri e mettersi a ballare. I primi spettatori del Pride 2015 sono i profughi eritrei che raccolgono l'ombra sotto gli alberelli del piazzale della stazione. Hanno corpi eleganti ed abiti puliti, non sembrano né sorpresi né stupiti di fronte a una folla così chiassosa ed eccentrica. I loro pensieri sono rivolti avanti e altrove e quelli che si vedono sono corpi così in attesa di essere da un'altra parte che già in qualche modo ci sono. Il carro che ho davanti invece, di cui sono spettatrice assorta per qualche minuto prima di farmi prendere dalla festa, è ispirato all'antichità romana. Tripartito da colonne di ordine dorico rigorosamente di polistirolo dorato, lo spazio del rimorchio di un grosso tir è occupato da un gruppo di Drag Queen che portano pepli variopinti e hanno acconciature sofisticate chiuse con grosse corone d'alloro; bellissime, sono scortate da centurioni dai muscoli scolpiti che sanno muovere i pettorali a ritmo di musica. Da sopra guardano sotto e da sotto, intanto che il corteo è partito, si guarda sopra, tendendo le mani e ballando. Un'altra categoria di spettatori è quella che guarda dalle finestre o dal balcone: filmano con i telefoni, fanno foto e selfie. Quelli che sfilano non risparmiano i saluti, si alzano urla di gioia e saluti verso chi sta in alto che per qualche istante ha il monopolio della ribalta, si alzano ovazioni se qualcuno di loro porta in mano una bandiera, un simbolo della comunità o se mostra di essere partecipe della festa, ballando, come ho visto fare a più di un'insospettabile signora milanese sul balcone. Di fronte a me sulla schiena di un uomo corpulento per un pezzo di sfilata vedo un'immagine tatuata di San Giorgio e il drago, sopra campeggia la scritta “Indomable”.
A circa metà di Corso Buenos Aires lascio il corteo, guardo più tardi sul mio smartphone le foto di Billy Costacurta e di Pisapia che parlano dal tir su cui prima ballavano le Drag Queen e la distesa di “SI!” con il cuore al posto del puntino che ricopre l'immagine. L'ultimo pezzo di Pride lo vedo verso mezzanotte di fronte alla pianta esagonale di San Carlo al Lazzaretto nel cuore di Porta Venezia. Una piccola folla sta danzando I Follow Rivers di Lykke Li fronte a un dj set. Mi fermo a guardarli da fuori con il desiderio fortissimo e poi trattenuto, di danzare con loro.
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