Il festival, giunto alla sua venticinquesima edizione, è supportato da istituzioni, musei ed enti privati. Per il primo anno anche Marie Claire è partner del progetto. Ce ne parla la giornalista Sara Del Corona
«Ogni film porta con sé un universo di considerazioni e di temi che sarebbe bello approfondire sul Web. Se per certe cose la carta stampata è indispensabile, soprattutto per la risoluzione dell’immagine, per altre ci stiamo abituando a leggere e ad approfondire anche in altro modo. Il Web sta diventando in questo senso indispensabile.». A parlarci è Sara Del Corona, vice caporedattore attualità di Marie Claire, che abbiamo incontrato in occasione del festival.
Com’è nata la collaborazione tra Marie Claire e il FCAAAL?
Sono stati loro a proporci di collaborare al Festival e ne siamo stati contenti. Marie Claire ha sempre seguito con attenzione il cinema, soprattutto quello indipendente. Nella rubrica del mensile cerchiamo di dare spazio a film di produzioni “minori”, perché è più interessante e originale scrivere un racconto proprio su quel tipo di cinema meno conosciuto che su qualcosa di hollywoodiano.
È per questo che collaborate con OffiCine (un progetto di Anteo Spazio Cinema e IED, ndr)?
È già da diversi anni che organizziamo con OffiCine alcuni workshop destinati a giovani filmmaker emergenti. L’obiettivo è dare ai ragazzi che studiano cinema la possibilità di realizzare documentari su alcuni temi sociali importanti con la collaborazione di alcuni registi affermati nel ruolo di tutor. Lo scorso anno, ad esempio, Andrea Segre e Simone Falso hanno presentato, al termine del corso, Ex/Out , il docu-film che indaga il mondo della finanza.
Da due anni, inoltre, in occasione della Mostra di Venezia consegniamo il premio Future Visioni ai giovani talenti femminili del cinema italiano.
Sul nostro numero di giugno uscirà un servizio fotografico su “Chollywood”, la nuova macchina cinematografica cinese che sta tentando di “scalzare” Hollywood assorbendone attori e produttori.
Come avviene la scelta e la selezione del materiale fotografico?
Con la fotografia cerchiamo di portare avanti lo stesso discorso che facciamo con il cinema. Una volta uscivamo con numeri giganteschi, quasi dei volumi, in cui la mescolanza di linguaggi aveva lo scopo di favorire il tema, piuttosto che l’immagine. Oggi invece, anche a causa della crisi, la selezione è diventata più spietata. Se da un lato questo a volte ci penalizza e ci frustra, dall’altro porta a selezionare i lavori che parlano un linguaggio il più ampio e completo possibile. È per questo che scegliamo di pubblicare sempre meno reportage di cronaca a favore di progetti segnati da una carica narrativa più forte.
Al FCAAAL infatti avete curato anche l’allestimento della mostra di Joan Bardeletti.
Bardeletti risponde proprio a tutte le caratteristiche che ti dicevo. Ogni suo scatto possiede una carica narrativa molto forte, pur non avvalendosi del contributo di set fittizi né artificiosi. Un lavoro come Les Classes Moyennes en Afrique capovolge la nostra visione dell’Africa, affidata troppo spesso ai luoghi comuni. Le sue fotografie hanno alle spalle un lavoro di studio antropologico e di ricerca sul campo che iniziano molti mesi prima della produzione. Ciò che lo contraddistingue è anche la capacità di usare i diversi linguaggi mediali: se lo scatto porta in una direzione, il contributo filmico ha dei tempi diversi, più estesi e dilatati. In questo modo non racconta una sola realtà, ma molte di più.
Le testimonianze dal mondo e i racconti d’attualità come contribuiscono - sul vostro mensile - a creare l’immagine della donna moderna?
Marie Claire è nata negli anni ’70 e proprio in quel periodo le nostre copertine rappresentavano una donna androgina che gli altri mensili italiani ancora non proponevano. Siamo stati un giornale di “rottura” del conformismo, prima ancora che un femminile. Oggi la responsabilità di selezionare storie che parlano di donne il meno stereotipate possibile è enorme. Il desiderio non è quello di fornire una risposta a cosa è “femminile” e “moderno” oggi, ma di proporre delle storie, che anche se ambientate in territori lontani, sappiano raccontare la capacità delle donne di reinventarsi e rinascere.
Il FCAAAL, arrivato alla sua 25esima edizione, può porsi come il punto di riferimento d’incontro tra culture diverse?
È fondamentale, non solo per la qualità dei film in programma, ma proprio per la capacità dell’iniziativa di entrare nel tessuto della città di Milano, coinvolgendo interlocutori diversi.
C’è un film che hai apprezzato particolarmente?
Sono rimasta molto colpita da The Storm Makers (film vincitore della sezione Lungometraggi, ndr). Racconta della riduzione in schiavitù delle ragazze cambogiane attraverso un meccanismo terrificante per cui sono i genitori stessi a vendere le figlie. Mi ha turbato molto. Non ci sono reazioni di rabbia, di odio e di ribellione. Tutto ciò rende questo film-verità ancora più sconvolgente.
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