NESSUN PENSIERO UMANO PUÒ DARE UNA RISPOSTA A UN INTERROGATIVO INUMANO

NESSUN PENSIERO UMANO PUÒ DARE UNA RISPOSTA A UN INTERROGATIVO INUMANO
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Film asciutto, rigoroso del regista e artista birmano Maw Naing, The Monk, è la voce di un cinema indipendente che trova vita dura nell’attuale situazione politica di Myanmar.

 

Zawana, giovane novizio di un monastero buddista in Birmania, è un salvato. U Dhama, il suo austero, esigente Maestro, lo ha trovato, solo, a Yangon, su una panchina del deposito dei bus e lo ha preso con sé. Ma ora Zawana deve scegliere: restare nel monastero o ritornare nel mondo, magari aprirsi all’incontro con Marlar, la graziosa ragazza con cui da un certo tempo è iniziato un dialogo d’amore fatto di sguardi, piccole attenzioni e biglietti d’amore che i due si scambiano quando il gruppo dei giovani novizi avanza processionalmente nel villaggio per chiedere l’elemosina. 

 

«Dovrei essere grato» confida all’amico novizio Yawata ma, proprio come il suo amico, è stanco di vivere solo di offerte. «99 monaci su 100 pensano di lasciare il monastero» dice Yawata «ma non lo fanno perché hanno paura di affrontare la vita normale». La vita normale è soprattutto lo sguardo di Marlar e un i-pod che arriva in monastero e diventa l’attrazione dei novizi. Non sentiamo mai la musica che arriva ai suoi orecchi: ci viene solo mostrata l’attrazione, ci sono lasciati immaginare i sogni che attraggono l’intimo di Zawana.

 

Quando Yawata decide di lasciare il monastero e parte per Yangon, Zawana lo segue ma si ferma sul pontile dell’imbarco. Non partirà. Yangon resta lontana. Partono gli altri giovanissimi novizi, invece. Zawana resta solo in monastero, con il Maestro. 

 

Yangon è il luogo dello smarrimento e del tradimento. E’ la ruota del luna Park che gira su se stessa per nessun dove. A Yangon Zawana scopre che Marlar ha una relazione con un altro uomo. A Yangon ritrova Yawata ma Yangon, come gli rivela l’ubriaco di un locale, è soprattutto «l’inferno». Forse è per questo “inferno” che Zawata è chiamato a diventare monaco. Come il suo illustre predecessore, il monaco  Mizushima, protagonista di L’arpa birmana di Kon Ichikawa (1956), potrebbe anche lui scrivere: «la luce mi illuminò i pensieri. Nessun pensiero umano può dare una risposta a un interrogativo inumano. Io non potevo che portare un poco di pietà laddove non era esistita che crudeltà.».

 

A Yangon ci andrà, Zawana, ma per accompagnare, U Dhama all’ospedale: la sua salute si è fatta preoccupante. Servono cure e servono soldi per pagare quelle cure. Le offerte usate abitualmente per vivere ora serviranno al Maestro per non morire. Ma U Dhama non vuole usare le offerte del monastero per la sua salute personale. Zawana si prende cura di lui, in un crescendo di coinvolgimento e partecipazione: arriverà a dargli il suo sangue per permettere una delicata operazione. In questa cura che restituisce e, in certo modo, salva il Maestro, Zawana recupera le ragioni della sua scelta e i fondamenti. Non è più un debito di gratitudine ma una via di responsabilità. U Dhama scompare. Letteralmente. Mentre sono in profonda meditazione, immersi nella rete che li circonda come un muro di carta velina, una barriera (permeabile) di silenzio, il Maestro si dissolve. Dona tutto di sé, lasciando un vuoto luminoso. Così, il suo posto di luce, lasciato libero, viene abitato da altri quattro giovanissimi monaci che, sotto la guida di Zawana, portano nuova vita al monastero.

 

* Ha studiato Arte all'Università di Torino. Dal 1986 è entrato nella Compagnia di Gesù. Ha lavorato a Milano dal 1997 al 2013 presso il Centro Culturale San Fedele e nel Carcere di San Vittore.  Dal marzo 2013 vive e lavora a Padova: collabora a itinerari di Giustizia Riparativa e Mediazione Penale, a cicli di lectio biblica e prosegue la sua attività artistica come scultore e pittore.

 

The Monk di The Maw Naing, Concorso lungometraggi, stasera venerdì 8 ore 21.15, Auditorium San Fedele; domenica 10, ore 19.00, Spazio Oberdan

 

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