Tra le opere di maggiore impatto visivo e narrativo nella sezione Colpe di Stato: Tell Spring Not To Come This Year, stasera al MIMAT. Gli autori del documentario ci raccontano il loro anno vissuto in prima linea, seguendo l’Afghan National Army
L’infinta guerra ai talebani, che ancora affligge l’Afghanistan, per la prima volta ci viene mostrata dall’interno, grazie al lavoro d’inchiesta del regista palestinese Saeed Taji Farouky e dell’ex soldato britannico e intermediario Michael McEvoy.
Se per la maggioranza degli occidentali la guerra in Afghanistan si è conclusa nel 2013 con il rientro delle truppe NATO, la realtà per chi ci vive è molto diversa. I due filmmaker catturano il senso di abbandono che affligge le giovani reclute dell’esercito afghano. La quotidianità, l’intimità delle confidenze e il terrore negli occhi dei soldati sono il risultato del lavoro di giornalismo embedded che in Tell Spring Not to Come This Year assume un’inedita forma cinematografica.
Già in passato Farouky aveva affrontato temi forti come il contrabbando e l’economia sommersa di Gaza in Tunnel Trade (2007) e la Primavera Araba del più recente The Runner (2013), storia di un soldato-atleta nel Sahara occidentale. Un amico comune ha messo in contatto il documentarista palestinese e il giovane soldato Michael McEvoy, classe 1986 ed esperto di mediazione linguistica. Dopo anni passati sul fronte mediorientale, McEvoy aveva una storia da raccontare, quella delle milizie nazionali dopo l’abbandono della regione da parte delle truppe occidentali.
Come vi siete preparati per vivere questa esperienza, esposti in prima linea al fianco dei soldati afghani?
SAEED TAJI FAROUKY: Prima di partire per la missione io e Mike ci siamo incontrati a Londra e poi abbiamo avuto uno scambio di mail, in cui mi istruiva sulla vita militare e si raccomandava per la mia sicurezza. Mi ha dato molte informazioni pratiche, utili per la mia sopravvivenza. Avevo già filmato conflitti, ma per la prima volta mi sono trovato a girare sul campo di battaglia, durante gli attacchi dei talebani e sotto una pioggia di proiettili.
In una delle scene più cruente, lo sguardo di terrore con cui ci osserva uno dei soldati sembra riflettere la vostra stessa paura.
STF: Ero conscio del rischio che ho assunto unendomi all’Afghan National Army. La paura ci ha accompagnato durante tutte le riprese, ma ho imparato a gestirla. Il panico mi ha assalito soprattutto durante i momenti di stallo, ancora più che sotto il fuoco delle granate. Quelle situazioni in cui per tre o quattro ore stavamo seduti a guardarci tra noi e capivamo cosa era appena successo. Lì le paranoie mi assillavano: se mi capita qualcosa? Quanto farei soffrire mia sorella? Chi lo finisce il film? Se muore Mike invece? Come faccio a dirlo ai suoi genitori?
Qual è stata l’urgenza principale che vi ha spinto a girare questo film?
MICHAEL MCEVOY: Non avevamo in mente una storia precisa, volevamo filmare la vita dei soldati, raccogliere le loro testimonianze, sapere cosa pensavano della guerra che stanno combattendo. Ognuno ha un punto di vista diverso da raccontare e noi mostriamo la complessità degli stati d’animo di queste persone.
In Tell Spring Not to Come This Year è evidente che i soldati si sentono abbandonati dall’Occidente.
MM: La realtà dei fatti è che l’Afghanistan è un paese povero, con scarsi mezzi e le truppe sono male equipaggiate. Il confronto con le forze armate occidentali più ricche è impari. Nel film seguiamo i flussi di coscienza di due soldati in particolare, documentando le posizioni più critiche della giovane recluta e quelle più rassegnate del comandante del battaglione. Non diamo ragione o torto a nessuno, il nostro interesse è raccontare ogni cosa senza filtri.
Come siete riusciti a trovare la giusta empatia per far sì che i soldati vi raccontassero la loro verità?
STF: Eravamo disposti a raccogliere qualsiasi testimonianza volessero darci. Abbiamo vissuto fianco a fianco per mesi e si è instaurato un rapporto di fiducia e di rispetto tra noi. Credo fossero consapevoli che il risultato sarebbe stato un film di informazione e non di propaganda. Ci hanno accolto come un’“opportunità” per mostrare all’Occidente chi sono e quello che veramente succede in una terra ormai lasciata all’oblio.
Siete ancora in contatto?
MM: Sono tornato in Afghanistan diverse volte, anche recentemente. Ho rivisto alcuni ragazzi del battaglione, molti di loro hanno finito il mandato, che per contratto dura 3 anni, e sono tornati alla vita comune.
STF: Sono rimasto in contatto con loro attraverso Facebook. Ogni volta che termino le riprese di un film, in qualche modo mi sento sempre in colpa. So di aver contribuito a divulgare storie che altrimenti nessuno avrebbe raccontato, ma allo stesso tempo mi sento a disagio sapendo di poter tornare alla mia normalità.
Il titolo che avete scelto per il vostro film è il verso di una bellissima poesia del poeta persiano Khalilullah Khalili, e nel documentario, uno dei soldati la recita prima della scena terribile in cui filmate l’attacco a fuoco delle milizie talebane.
MM: È una poesia che amiamo e che ha un grande valore affettivo per i soldati afghani. I suoi versi, infatti, vengono cantati dai soldati durante le lunghe notti di guardia, o durante le celebrazioni per i caduti. Molti credono che il titolo sia legato a una stagione di rivolte iniziata circa dieci anni fa, in primavera, e che il significato di Tell Spring Not to Come This Year sia un invito a non ricominciare a combattere. In realtà è un omaggio al grande poeta persiano Khalili.
Tell Spring Not to Come This Year di Khalilullah Khalili
Tell spring not to come this year,
because the grass of my country
grows not green but red with blood
Tell the nightingale not to sing
But you, our nation's fighting men,
History will kiss your forehead if you
make us free.
Tell Spring Not to Come This Year di Farouky e McEvoy, Sezione Colpe di Stato, ore 17.00, MIMAT