Il lungometraggio di Roman Vital è ambientato in un luogo surreale, un centro di deportazione immerso nelle Alpi svizzere dove i richiedenti asilo aspettano - anche per anni- nel silenzio insopportabile delle montagne.
Nell’atmosfera apparentemente paradisiaca di Life in Paradise si consumano il disagio dei rifugiati e la rabbia degli abitanti che non accettano la decisione del governo.
Come hai scoperto il centro di deportazione?
Nel 2006 in Svizzera c’è stato un referendum per una legge sulla questione dei richiedenti asilo. In quell’occasione ho realizzato che avevo solo nozione teoriche su questi temi, ma non sapevo nulla di concreto. Solitamente votiamo mettendo una crocetta su di un pezzetto di carta, ma non conosciamo le reali conseguenze del nostro voto. Ho voluto verificare con i miei occhi e riprendere la realtà. A quel punto avevo bisogno di un luogo adatto per parlare di un argomento così inusuale. Ho iniziato a frequentare Valzeina perché è molto vicino a dove abitano i miei nonni. Da un giorno all’altro le autorità hanno annunciato che un vecchio rifugio sarebbe stato trasformato in un centro di deportazione. E’ diventato subito un caso mediatico. Ho aspettato che la situazione si normalizzasse dopo il grande clamore così da poter capire cosa accadeva nella quotidianità. Il vilaggio era spaccato tra chi voleva aiutare i rifugiati e chi li rifiutava. Ho iniziato ad andare sul luogo, ci ho messo più di un anno solo per ottenere la loro fiducia, perché li ho dovuti convincere che non li avrei giudicati nè messi in difficoltà.
Gli abitanti del villaggio hanno visto il film quando l’hai finito?
Avevo l’illusione, un po’ naif, che il mio film avrebbe potuto unire gli abitanti del villaggio, cambiare il modo di pensare di queste persone. Quando c’è stata la premiere, invece, non si sono presentati in molti. Tempo dopo, però, l’hanno visto e sono rimasti piacevolmente sorpresi.
Ti ha arricchito incontrare i rifugiati?
Ho imparato molto. Quando frequento tedeschi, francesi, italiani, è semplice parlare con loro: sono persone con cui spesso condivido gli stessi valori. Entrando in contatto con loro, ho conosciuto modi di pensare totalmente diversi. Perché dovrei pensare che il mio sistema di pensiero sia giusto e il loro sbagliato? Dovremmo fare uno sforzo di intelligenza per entrare in sintonia pur conservando punti di vista opposti.
Da cosa nasce il pregiudizio degli abitanti del villaggio?
Penso sia più che altro paura dell’ignoto. Chi vive a Ginevra vede tutti i giorni persone provenienti da ogni parte del mondo. In questi paesi di montagna, le persone crescono senza vedere mai uno straniero.
Il custode del centro è un personaggio molto particolare, rispetta ciecamente le regole...
Sì, lui rispetta quasi ciecamente le regole, ma volevo anche mostrare il suo lato umano, anche lui in un certo senso è vittima del sistema. Se le autorità invece che imporre le iniziative dall’alto, iniziassero a parlare con la gente e a preparare le persone ai cambiamenti, anche l’atteggiamento delle persone sarebbe propositivo.
Hai iniziato da giovane a fare il regista?
A sedici anni ho trovato la videocamera superotto di mio papà in un armadio. Ho fatto un film di sessanta minuti, di cui quaranta dovrebbero essere cancellati. Abbiamo invitato tutto il villaggio alla proiezione. All’inzio pensavo che avrei fatto film di fiction, mentre studiavo invece ho voluto avvicinarmi sempre più alla realtà.
Colpe di Stato
Life in Paradise, mar. 9, ore 19.00, Spazio Oberdan; sab. 13, ore 11.00, Spazio Oberdan
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