STORIE DI UN MARE PERDUTO

STORIE DI UN MARE PERDUTO
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Dalle coste del Mar Ligure si salpa a bordo della casa-nave G. Bettolo, ancorata alla baia di Camogli. Racconti di viaggio dalle voci di anziani marinai in pensione, il documentario italiano premiato dal Torino Film Festival

 

Il pranzo e la cena; la visita e il riposo; il mare e la casa. Trascorre lentamente e ovattata la quotidianità nella casa di riposo G. Bettolo, storica istituzione della marina mercantile italiana, a picco sulla spiaggia di Camogli.

Per diciotto marinai in pensione l'ultimo imbarco «è stato senza ritorno», quella casa ha rappresentato l'approdo. Un sommergibilista gioca al superenalotto nella speranza di ballare un tango in crociera, un vecchio palombaro recita le sue poesie nei corridoi, un macchinista lotta contro il freddo dell'aria condizionata, un comandante cartografa nella volta celeste la rotta della sua imbarcazione e un nostromo rincorre le navi all'orizzonte.

 

Se in una casa di riposo le camere sono cabine, i magazzini stive, la terrazza ponte ciminiera e l'equipaggio ancora in attesa dello sbarco, è grazie al giovane regista milanese Alessandro Abba Legnazzi, ospite per la seconda volta di Filmmaker (Io ci sono, 2012) con il suo primo lungometraggio Rada (2014). Un ambizioso e delicato progetto, cinematografico ed esistenziale insieme.

Quando un autore decide di dare voce a chi non la può più avere, un volto a chi non può più uscire, un'identità a chi vive nel ricordo e soprattutto un sogno a chi è immobilizzato dalla noia, forse ha la volontà di restituire non solo sul grande schermo, ma negli spiriti dei protagonisti un mondo nel quale «chi entra, lascia la sua anima». Una scelta confermata dal ricorso all'immagine in bianco e nero, quasi per sottolineare che il tempo, quello reale, è ancora quello della vita di mare, delle rotte navali, dei repentini salti dai porti di attracco alle banchine. Un percorso stilistico e formale che ripercorre le pagine del poeta americano Herman Melville (Moby Dick, 1851), le tracce del regista francese Nicolas Philibert (Essere e Avere, 2002; La più piccola delle cose 1997; Il Paese dei Sordi, 1992), i fondamentali del cinema diretto e il cuore del cinema dell'empatia dove il prodotto è produzione, il soggetto progetto, il risultato processo, l'individuale relazionale, il film «un filo che si srotola nel tempo». Una mise en abyme di ciò che era e non è più, di una professione e di un film, per la quale, come forse direbbe Jean Louis Comolli, chi inquadra e chi è inquadrato si fondono in un intimo sguardo. La stessa “logica di rispetto” applicata in ambito teatrale da Pippo Delbono e Armando Punzo.

 

Un film in parte di finzione e al contempo l'esperimento di un cinema condiviso nato, come racconta lo stesso regista, «dalla volontà di raccontare un luogo apparentemente idilliaco ma che nasconde dentro di sé le vite abbandonate di tanti reduci del mare». Vite che ancora interrogano l'orizzonte, tracciano rotte con il compasso, ballano un tango tanto desiderato con il berretto sulla fronte e il doppiopetto sulle spalle. Pur essendo in rada, sulle coste di Camogli, in attesa di uno sbarco che mai ci sarà.

È la forza del cinema, la passione per il mare, la vita di un mondo perduto.

 

Rada di Alessandro Abba Legnazzi, Prospettive, dom 30 novembre, ore 15.30, Cinema Arcobaleno, Sala 300

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