Fuori dal mondo: il più grande regista teatrale contemporaneo accoglie un gruppo di allievi nel centro di Santacristina per insegnare loro a «smontare, rimontare, confrontare». Proprio il mestiere di Jacopo Quadri che, con La scuola d’estate, realizza un desiderio antico: filmare Luca Ronconi al lavoro
«Io credo ce ne sia bisogno. Non soltanto per gli allievi che vengono a imparare qualcosa. In qualche modo anche io, su un testo, un personaggio, una battuta, molto spesso improvviso. E se improvviso, imparo. È una ginnastica anche per me, come vorrei che fosse anche per gli altri. Il mio lavoro ha sempre rappresentato una forma di conoscenza del mondo». È Luca Ronconi che parla, uno dei più grandi registi teatrali italiani contemporanei. Ed è lui il protagonista de La scuola d'estate, il documentario di Jacopo Quadri, montatore cinematografico per Bernardo Bertolucci, Mario Martone e Paolo Virzì e del film vincitore di Venezia 2013, Sacro GRA di Gianfranco Rosi.
Quadri con La scuola d’estate sceglie di seguire Ronconi in azione e di viverlo nel presente in uno spazio a lui congeniale. Il Centro Teatrale Santacristina, isolato nella natura selvatica dell'Umbria, diventa una specie di eremo e si trasforma nel posto esemplare per una situazione di studio, con poche possibilità di lasciarsi distrarre dall'esterno. Qui lo vediamo improvvisare con i ragazzi, dare indicazioni, commentare, sorridere. Concentrazione e divertimento.
Nel 1967 ricordava così il suo passaggio dalla recitazione, che gli sembrava estranea al prorpio sentire, alla regia: «Sentivo la necessità di cercare analogie, rapporti, non tra un personaggio e una situazione, ma fra tutti gli elementi del testo. Mi piaceva di più star fuori e guardare, smontare, rimontare, confrontare». Parole che ricordano anche il lavoro di Quadri.
Come mai un film su Luca Ronconi?
Avevo l'idea di girare un documentario su di lui, perché in qualche modo è un patrimonio di famiglia, e di mio padre soprattutto, a cui era molto legato. Su di lui scrisse anche un libro nel '73 (Il rito perduto di Franco Quadri, Einaudi, ndr). È una persona di cui sentivo sempre parlare, ma che non avevo mai veramente conosciuto, una presenza lontana. Avevo un'attrazione verso questo personaggio, un desiderio di incontrarlo e filmarlo che volevo soddisfare. L'opportunità è arrivata quando sono venuto a conoscenza dell'esistenza del Centro Teatrale Santacristina e ho pensato che potesse essere l'occasione giusta per riprenderlo. L'intenzione era quella di farlo mentre svolgeva un'attività: durante le prove di uno spettacolo, o ancora meglio a scuola, in una condizione ideale dove lui non sente pressioni e tensioni. È a casa sua. Ronconi ha deciso di tenere questo laboratorio teatrale nel suo periodo libero estivo, sceglie lui gli allievi che accoglie come ospiti ed è emancipato da incombenze lavorative.
Chi ha contattato chi?
Sono stato io. Glielo ho proposto circa un mese prima dell'inizio del corso e lui si è detto onorato e contento. Conoscendomi e conoscendo il mio lavoro si è fidato. Io, invece, ero un po' preoccupato: non aveva mai vissuto prima l'esperienza di essere filmato in modo così ravvicinato e per così tanti giorni. Nonostante questo è andata bene.
Questo film rappresenta l'anello di congiunzione tra lei e suo padre Franco Quadri, uno tra i maggiori critici teatrali italiani.
Dopo la scomparsa di mio padre ho cercato di avvicinarmi a lui sotto una diversa luce, non più solo genitore. Volevo conoscerlo sotto l'aspetto lavorativo, del teatro, dell'editoria. Nell’eredità che mi ha lasciato c’è anche la conoscenza di persone come Ronconi. Un'opportunità da un lato, ma anche una difficoltà per il fatto di dovermi avvicinare a un mondo complesso, fatto anche di rapporti che non conosco.
È un viaggio che sto continuando anche ora con un secondo film, parte di un'ipotetica serie sui grandi maestri del teatro. Ora stiamo realizzando un documentario su Eugenio Barba e l'Odin Teatret, un'altra passione di mio padre. Durante il nostro incontro in Danimarca mi ha detto: «Che impressione, sembra che ci sia Franco!».
Durante le tre settimane trascorse in Umbria mi sono sentito come se da un lato fossi un semplice testimone del lavoro del maestro e degli allievi, come se mio padre fosse lì a guardarli, dall'altra ci sono io che scopro progressivamente questo universo e riesco anche a creare un'intimità, non tanto con Ronconi in sé, ma con il suo lavoro, il suo rapporto coi giovani, con la creazione, con il testo.
Mio padre ritorna anche nella produzione del film - che è Ubulibri - il proseguimento ideale della casa editrice fondata da lui molti anni fa. Ho voluto continuare questo progetto nel modo più vicino a me, ossia attraverso il cinema, per non far morire tutto. Alla fine c'è sempre mio padre di mezzo, ma questa è anche l'occasione per andare oltre. Nonostante il mio cognome, il film vive di vita propria.
A un certo punto del film Ronconi si confida, parla della sua malattia e del peso dell'età che comincia a farsi sentire. Allo stesso tempo appare ancora entusiasta del proprio lavoro, desideroso di imparare e di avere come obiettivo la conoscenza del mondo attraverso il teatro. Qual è invece il suo obiettivo nel fare cinema?
Da montatore, il mio obiettivo, rispetto al film come entità a sé, è quello di tirare fuori il meglio, che molto spesso è nascosto, per metterlo in rilievo. In generale, quindi rispetto al cinema e al documentario, potrei anche io affermare che il mio scopo è quello di conoscere il mondo e realtà totalmente ignote.
Il documentario è anche un mezzo per far conoscere queste realtà ad altri. Prima conosco io, vivendo alcune realtà, filmandole - ma anche montandole, in quanto il montaggio mi permette di andare più in profondità - e poi trasmetto ciò che ho visto, vissuto e imparato.
Qualche esempio?
Mi viene in mente l’esperienza fatta collaborando a film sui Saharawi che hanno rappresentato l'occasione per venire in contatto con questo popolo. Una vicenda che mi ha accompagnato per 15 anni e da cui è nato un intenso rapporto con loro e coi loro problemi. Oppure penso a Benares, in India, un posto in cui non son mai stato, ma che il mio lavoro mi ha permesso di avvicinare.
Quando si decide di fare un documentario su un luogo o una persona è perché ti interessano, è una scusa per viverli, un autoinvito nella loro esistenza. Ad esempio, io e i miei collaboratori probabilmente non saremmo mai andati in Danimarca per incontrare Eugenio Barba, non avremmo mai nemmeno sfiorato quella situazione, invece l'abbiamo vissuta proprio perché dovevamo filmarla.
Quindi il cinema e il teatro non sono poi così distanti come a volte si tende a pensare.
Non se si intendono come mezzi per conoscere il mondo e la realtà. Penso che il lavoro dell'artista in generale abbia punti in contatto sia che si parli di musica, teatro, cinema ed è molto vicino anche all'operato dello scienziato, dello studioso. Gli scopi sono comuni.
Quale dei due mestieri, montatore e regista, è più divertente?
Tutti e due! Dipende sempre da quello che si fa e dal progetto. Se ti trovi da regista in un film sbagliato può essere molto difficile, e allo stesso modo è dura trovarsi a lavorare da montatore su un'opera in cui credi molto all'inizio, ma che in seguito diventa deludente. Una volta dentro al progetto bisogna sempre dare il meglio di sé e la cosa più difficile è dover far finta di crederci quando nella realtà non è così.
Da regista ho ancora poca esperienza, sono tutti lavori autoprodotti e dunque tutto si gioca sull'entusiasmo. Scelgo ciò che mi interessa, si parte sempre all'arrembaggio e senza soldi. L'importante è condividere l'esperienza con un gruppo affiatato e girare continuamente perché ci si trova sempre in mezzo a circostanze singolari e irripetibili. Credo nella passione che supera i tentennamenti produttivi, come a dire: «Partiamo comunque, anche senza un soldo. Dopo si vedrà».
La scuola d'estate di Jacopo Quadri, dom 7 dicembre, ore 21.30, Cinema Arcobaleno, Sala 300