Basta guardarsi dentro per capire che semplificare non aiuta a comprendere la natura delle cose. E fuori è come dentro. Così come lo è anche per il cinema, il post cinema, la videoarte o le immagini di frontiera. Creiamo definizioni che servono per identificare una nuova categoria, che escluderà altre immagini e altre procedure artistiche. È una sorta di ritorno all’ordine, in cui ogni cosa ha il suo posto e il suo scopo, per permettere (costringere) chi guarda, a fare connessioni prestabilite.
Sono ormai molti anni che curo - alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, grazie al direttore Giovanni Spagnoletti - una sezione dedicata a queste immagini, per così dire «di frontiera». All’inizio il mio interesse era rivolto alla pura videoarte, ed il gioco di inserirla all’interno del programma di un Festival mi sembrava operazione generatrice di cortocircuiti interessanti. Tantissimi gli artisti coinvolti (soprattutto italiani), moltissime le opere proiettate nella Corte di un palazzo storico di Pesaro, un classico luogo informale, nel quale gli spettatori/avventori si trovavano di fronte immagini non convenzionali. Non cinema sperimentale, si diceva, ma già all’epoca la differenza era impossibile da cogliere: gli ZimmerFrei che piazzano una videocamera al centro di una piazza e la lasciano roteare per ore o realizzano un documentario in cui si racconta Marsiglia partendo da un piccolo bar nel porto dove gli avventori cantano le canzoni d Toto Cutugno. O Cosimo Terlizzi che riprende una fotografia, compone un numero di telefono di un bagno di una stazione di servizio o mette in scena dieci modi di arrendersi. O, ancora, Cosmic Love, nel quale goldiechiari raccontano un viaggio intergalattico attraverso «una cosmogonia immaginaria, composta da pianeti dai colori brillanti. Un movimento migratorio interstellare di sex toys, che varca i confini terrestri». Né cinema né post cinema, al limite performance (come quella che facevano gli ormai vecchi maestri dell’arte relazionale) e chi se ne importa se Gina Pane già negli anni Settanta odiava chi usava questa parola. Quello che vediamo sono situazioni, messe in scena da artisti che non si pongono certo la domanda sul cosa stanno facendo, ma lo fanno e basta. Al di là del mercato (a volte), al di là del pudore, come fanno i molti (non tanti, ma molti) documentaristi che riescono con dignità e rigore a mettere in scena i loro stessi corpi, la sola materia di cui possono essere fatti i sogni in un’epoca in cui tutto è virtuale.
E allora la soluzione più divertente è tornare ai sextoys di goldiechiari, al puro piacere. Al godere di una visione, lasciando da parte definizioni e generi; indifferenti al sapere se siamo soli (e quindi) masturbatori o molti (e di conseguenza) promiscui. Se amassimo vedere le sale piene, probabilmente ci piacerebbero altre immagini.
Oggi – come sempre – abbiamo davanti e dentro di noi strade tortuose. Un disordine cosmico, dove tutto quello che fluttua può essere oggetto dispensatore di piacere. Le frontiere sono come sempre risposte solo negli occhi e nei pensieri di chi guarda, nella capacità di non fermarsi solo a quello che si vede sullo schermo. Perché, come si diceva negli anni Settanta, anche far pane è arte. E lasciamo perdere il confine inventato, l’Universo è il nostro Stato.
* curatore della sezione Round Midnight della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro
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