Un film scandito dalle stagioni, un’opportunità di catturare il presente e decomprimere il tempo. Lucia Small svela l’importanza dell’incontro con Ed Pincus. E di quest’ultimo film girato insieme
Nel giro di poche settimane, la regista Lucia Small si trova di fronte alla perdita di due persone care. La scomparsa improvvisa e prematura delle due amiche non ha lasciato il tempo di dirsi addio. Perciò quando qualche mese più tardi il regista e amico Ed Pincus le propone di girare un documentario sulla vita, i rapporti e la perdita di chi si ama, la filmmaker americana deve fare i conti con un dolore familiare. Al pioniere del documentario restano pochi mesi di vita.
One Cut, One Life è un film emozionante sul rapporto con la morte, intrecciando l’esperienza di chi vive la malattia con quella di chi resta e deve affrontare il dolore per la perdita. Due registi legati da una profonda amicizia e la moglie Jane, sono i protagonisti di un percorso attraverso le emozioni belle e brutte della vita, una storia che a tratti fa sorridere con la sua ironia e all’improvviso commuove, in un vortice di emozioni.
All’inizio eri riluttante all’idea di partecipare a questo film. Dove hai trovato la forza per farlo?
È stato un percorso. Ho trovato la forza man mano che giravamo. Ci sono stati molti momenti in cui ho pensato di abbandonare, ma ero profondamente affezionata a Ed e al suo ruolo nella storia del documentario e mi interessava fare un film che parlasse dell’amore e dell’amicizia. Mi rendeva felice cercare di cogliere la complessità della vita con le sue difficoltà attraverso la camera, c’è qualcosa di veramente magico nella possibilità di catturare i momenti.
Girare il film ti ha aiutata a metabolizzare il dolore per la perdita di una persona cara?
Sì, ha aiutato sia me sia Ed. Lui spesso mi ha detto che era contento di quello che stavamo facendo. All’inizio è stato complicato affrontare l’ambivalenza di sua moglie Jane. Non volevamo accettarla, ma poi è diventata fondamentale nel film. Quando fai un documentario vuoi essere fedele al soggetto, ma è un processo e ci sono molti momenti in cui diventa troppo emozionante filmare e questa è la sfida più importante per il regista. In quei momenti puoi catturare la realtà senza contenerla, in modo molto più reale. Il film è stato una cura per la morte delle mie amiche, Karen e Susan, e di Ed. Il tempo passato insieme lavorando al progetto, è stato un regalo.
Quando si viene a contatto con la perdita e la morte si è portati a riflettere sulla fugacità della vita. Com’è cambiata la tua percezione del tempo?
Certo, mi sono chiesta come cambierebbe il mio modo di vivere se avessi solo un giorno o un mese di vita. Abbiamo parlato a lungo di questo. Il film, infatti, è scandito dalle stagioni. Un’altra primavera, un altro inverno. Molte persone lottano con l’attuale stile di vita ma lo scrittore William Faulkner una volta disse che il passato non è qualcosa di morto. Il tempo è compresso e quando inizi a pensarci è difficile, puoi solo vivere il momento. Ma questo progetto è stato un’opportunità per riflettere su tale aspetto. È anche il motivo per cui amo filmare, puoi catturare il presente così com’è, conservare una traccia di ciò che diventa passato con cui rigenerare memoria. Ogni volta che riguardi il film, la percezione di quel momento che conservi nella memoria può essere diverso, c’è uno slittamento di percezione tra l’esperienza diretta e quella attraverso le immagini.
Condividere questo percorso con Jane ha accresciuto il vostro rapporto?
Ho conosciuto Jane prima di girare The Axe In The Attic, il film sull’uragano Katrina prodotto in collaborazione con Ed. Ci siamo incontrate circa 12 anni fa, ma non avevo mai conosciuto il suo lato più intimo e tenero, mentre con questo secondo film abbiamo imparato a capirci meglio e rispettarci. Ho conosciuto una nuova Jane e ciò ha arricchito la nostra amicizia.
Nel film si intrecciano due punti di vista, il tuo e quello di Ed. Avete un’età diversa e soprattutto un ruolo differente nella storia.
Ho voluto sperimentare questa forma di narrazione con un documentario con una forte componente personale già quando ho girato il film su mio padre. Dopo aver terminato questo lavoro ho conosciuto Ed e ho subito visto la connessione tra noi. Era un uomo più grande di me di 25 anni, come mio padre, interessato quanto me a rompere gli schemi e mescolare il punto di vista di una giovane regista con il suo per raccontare una storia. Ci sono molti momenti in cui è lui a filmare me, ma comunque la duplicità del punto di vista emerge dal film, come se ci fossero due storie.
Avevo deciso di utilizzare questo modo di narrare prima di iniziare, Ed era d’accordo a sperimentare. A poco a poco abbiamo capito che era la direzione giusta da seguire per questo lavoro. Questo è stato possibile perché entrambi eravamo disposti a sperimentare.
One Cut, One Life di Lucia Small e Ed Pincus, dom 30 novembre, ore 17.30, Arcobaleno Sala 300
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