Non ci si aspetti atmosfere viscerali, sussurri e grida, colori turgidi, notturni tormentati, gesti appassionati e contro ogni logica, desideri che per essere soddisfatti impongono (auto)distruzione in Amour Fou, ultima fatica della regista austriaca Jessica Hausner, interpretata dagli splendidi Christian Friedel, Birte Schnöink e Stephan Grossmann, e presentata all’ultimo Festival di Cannes, nella sezione "Un certain regard". Nulla di tutto questo, paradossalmente. Perché il film racconta gli ultimi mesi della vita di uno dei massimi poeti del romanticismo tedesco, morto suicida nel 1811: Heinrich von Kleist. Assediato da un male di vivere che nulla di esistente può alleviare, il poeta cerca una donna che sia disposta a morire assieme a lui: prima crede di trovarla nella cugina Marie, che lo rifiuta, poi in Henriette Vogel, sposata con una figlia. Inizia a corteggiarla cercando di convincerla di condividere la stessa sua indifferenza alla vita; sulle prime lei oppone resistenza, poi un giorno le viene diagnosticato un tumore all'addome e poco a poco si identifica con lui e decide di accettare la sua proposta. L’idea di due persone che si suicidano assieme per amore, cercando una via di fuga dall’inevitabilità della fine attraverso la loro unione, per evitare di morire da soli e che la morte dell’uno annienti l’altro, sembrerebbe muoversi nel perimetro dell’amore folle così come è stato istituzionalizzato dal preromanticismo tedesco e dai suoi derivati (Goethe, Foscolo ecc.), con tutte le ricadute narrative e iconografiche che quella stagione della letteratura e dell’arte evoca. Ancora una volta: nulla di tutto questo. La storia si muove sempre sul filo tagliente di un’ironia glaciale, la stessa del film precedente della Hausner, Lourdes: quando Henriette accetta la proposta di Heinrich, è lui a esitare (apparentemente perché lei soffre per la morte imminente, mentre lui soffre per la vita), la lascia per un po’, torna dalla cugina renitente, ritorna da lei, affittano una stanza per compiere il gesto folle, vengono sviati dal sopraggiungere di un amico ecc. Nessuna passione romantica attraversa queste azioni: nessun trasporto, nessun calore. Ciascuno è intrappolato nella stanzetta angusta del suo io e lì resta: megalomania, ferite narcisistiche, abulia impediscono ai personaggi di entrare in contatto l’uno con l’altro in profondità. Parallelamente, il racconto è inscenato e scandito come fosse una sequenza di tableaux vivants: le inquadrature sono immancabilmente statiche e il campo è sempre allestito come fosse un quadro. Per l’esattezza, la regista, insieme alla scenografa Katharina Wöppermann e alla costumista Tanja Hausner, si ispirano con precisione maniacale alle tele di Jan Vermeer, quelle che Gombrich definiva «nature morte con esseri umani», con la loro attenzione ai dettagli insignificanti del quotidiano e alla solitudine ancestrale degli uomini, teatralizzate in spazi plurimi, con soglie interne (porte) ed esterne (finestre), quinte, specchi, facendo esplodere il contenuto minimale dentro la forma barocca, l’insignificanza dentro l’illusionismo. Muovendosi su una tavolozza che rifiuta ogni saturazione cromatica e luminosa, incline piuttosto a ridurre i contrasti e ad attenuare le tinte. Inoltre le inquadrature e i rispettivi campi tornano identici e ipnotici in punti successivi della storia, inchiodando i personaggi alla loro essenziale immutabilità. Fino al finale inaspettato…
The Outsiders
Amour fou, ven. 5, ore 22.00, Teatro dell’Arte; dom. 7, ore 20.00, Teatro dell’Arte; sab. 13, ore 20.15, Auditorium San Fedele
*Fabio Vittorini è docente di Letterature Comparate all'Università IULM di Milano
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