QUANDO COPIARE NON È REATO

QUANDO COPIARE NON È REATO
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Rinaldo Censi è una vecchia conoscenza di Milano Film Network: durante la passata edizione Invideo ha curato il workshop “Una storia del cinema” dedicato al cinema sperimentale. Non gli piace parlare di sé, ma ama scrivere di cinema. Copie originali, Iperrealismi tra pittura e cinema è infatti il suo terzo libro, uscito questa primavera per Johan & Levi Editore

 

«Non sono un sociologo e neppure un pedagogo. Mi occupo di immagini più o meno mobili» così si descrive Rinaldo Censi nella nostra furtiva intervista telefonica.

 

I riferimenti filmici che lo hanno indirizzato in questa analisi sono stati soprattutto i testi di Franco La Polla, tra cui Il nuovo cinema americano 1967-1975, anche se, mentre la visione del critico e docente cinematografico scomparso nel 2009, è strettamente legata alle produzioni della New Hollywood, Censi cerca di allargare il dibattito al cinema sperimentale. L’autore non si accontenta di una dimensione allusiva dell’analisi, in cui l’immagine cinematografica si collega alla dimensione iconografica dei dipinti iperrealisti (penso a Il lungo addio di Robert Altman, Fat City di John Huston, Taxi Driver di Martin Scorsese e L'ultimo spettacolo di Bogdanovich), ma tenta di aprire nuovi percorsi di ricerca.

 

Quali suggestioni ti hanno portato a scrivere questo saggio? 

Mi piace complicarmi la vita. E’ lunga da spiegare perché ci sono varie cose che mi hanno spinto a scriverlo, una di queste è l’interesse per la pittura Iperrealista. Da qui ho cercato di capire se potesse esistere un equivalente nell’arte cinematografica di questo gruppo pittorico che, più che un movimento, io definirei una nebulosa che si è formata a partire dalla metà degli anni ’60. «Non ho nulla contro il Nuovo Realismo, ma non mi voglio far parte di un movimento che secondo me neppure esiste» diceva Chuck Close. Quello che veramente mi interessa è ciò che si trova alla base di questa corrente artistica, ovvero il trasferimento da un medium, quello della fotografia, a un altro medium, quello della pittura. Volevo approfondirne il dualismo e ricercarlo nel cinema. Capire se anche in questo caso il vero referente dell’opera artistica non è tanto l’oggetto della fotografia o della cartolina, ma la fonte stessa, qualcosa che ha a che fare col dispositivo del cinema, la sua struttura.

 

Spieghi questo ultimo concetto nel capitolo del tuo libro intitolato Un realtà di secondo grado, e a un certo punto scrivi: «Insomma può esserci originalità in una copia? Dopotutto, l’originale cui fanno riferimento gli iperrealisti è già una copia (una brochure, una fotografia presa da un giornale, un dépliant), ed è ovviamente a partire da una “copia” (rifilmata) che lavorano i nostri filmmaker». 

Se penso al reale, penso al momento in cui si realizza un quadro. All’azione che vi sta dietro. Chuck Close ammetteva che non c'era realismo in quello che faceva, perché l’azione è così artificiale, così distante dalla realtà. Il suo metodo di lavoro, come quello di Malcolm Morley sono paradossali. Stiamo parlando di trasferire dati da un’istantanea fotografica a un dipinto, un lavoro che può prendere mesi, e mesi. Per me il reale, se c'è, risiede in questo lavoro di rielaborazione: un tempo iperreale. E nel risolvere questioni di pittura, o filmiche. Ma non penso di avere la verità in mano, tutto quello che ho scritto in questo libro è uno spunto di riflessione aperto a tutti. 

 

Perché parlare di iperrealismi tra pittura e cinema?

Alla base di questo saggio non si trova alcuna critica sociale. Seguo l’esempio di molti artisti iperrealisti che hanno rifiutato una definizione politica delle loro opere. Questo perché erano più interessati a risolvere problemi pratici di pittura, nonostante sia evidente, ad esempio, come in molti lavori di Malcolm Morley possa emergere una dimensione satirica della società contemporanea. Così anch’io mi sono semplicemente fermato a riflettere sull’arte iperrealista da un lato, i suoi diversi metodi di esecuzione; e dall’altro indago sulla materia fisica, sulla pellicola, il film, il fotogramma: aspetti che fanno emergere non solo l'immagine filmica, ma la sua struttura, un doppio livello insomma.

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