Domani comincia il festival di cinema, tv e sport FICTS.
Intervistiamo in esclusiva una delle icone italiane della pallacanestro più cinematografiche e anticonformiste: Gianmarco Pozzecco, medaglia d’argento ad Atene 2004 da giocatore, oggi allenatore della Pallacanestro Varese e grande appassionato di film e libri che raccontano lo sport
Quando giocava era il "ribelle", il punk rocker del basket italiano.
Ricordate? Capelli perennemente disordinati (un anno anche di color rosa), follia libertaria, genio, tiri da tre improvvisi come le entrate a canestro a zigzagare tra i lunghi. E poi assist pazzeschi, grinta, grida e furore agonistico. Insomma tutto il contrario del playmaker ragioniere: «Alcuni allenatori pretendevano il play equilibratore… Mai stata roba per me!».
Gianmarco Pozzecco - "Poz" per tifosi e appassionati di pallacanestro - da allenatore non sembra molto cambiato, anche se ora a bordo campo porta camicia e cravatta. Quella maledetta camicia bianca se l’è da poco strappata platealmente in stile Incredibile Hulk, dopo un’espulsione subìta durante il derby contro Milano.
Sembra ancora piuttosto sovversivo e anarchico. «Ma no!» racconta «son diventato un po’ più razionale e perfino un pantofolaio! Giusto certi eccessi ancora non so proprio controllarli, ma non m’impiccherò per colpa di una camicia strappata.».
Quel playmaker "punk rocker" del basket ha vinto l’argento alle Olimpiadi di Atene nel 2004 e lo scudetto “della stella” a Varese nell’annata storica dei memorabili Roosters 1998-’99.
Da coach, dopo due anni notevoli all’Orlandina Basket, ora allena la Pallacanestro Varese. Qui, dopo una partenza a razzo, deve risollevarsi da alcune sconfitte e una squalifica.
Quanto sei cambiato, negli ultimi anni, passando da giocatore fuori da ogni schema ad allenatore? A giudicare dalle scelte tecniche, furore a bordo campo e dalla camicia strappata non molto…
Sì, non che io sia cambiato moltissimo, purtroppo o per fortuna. Chi sta nell’ambiente della pallacanestro non deve mai perdere di vista il fatto che è fortunato: anziché lavorare, gioca. Sento però la responsabilità dell’affetto che mi stanno dando i tifosi, nonostante le sconfitte. Da giocatore qualcuno pretendeva che io fossi il regista quieto, tranquillo e ragioniere. Io mi sono quasi sempre sbattuto i coglioni di quello che mi dicevano di fare, giocavo nell’unico modo che mi piaceva e gratificava. Dalla C2 alle Olimpiadi. L’aspetto ludico era sempre fondamentale e da coach questo elemento è rimasto, anche se qualcosa è ovviamente cambiato, tra lo stare in campo e fuori.
Qual è dunque per te l’"impronta di Poz" allenatore?
Io, se non si "gioca", non mi diverto. Il ruolo dell’allenatore canonico non fa per me. Certo, quando perdi devi arginare un po’ la goliardia in spogliatoio e cercare una dose di umiltà, per risalire, ma a Varese l’ambiente è davvero notevole, con i giocatori c’è un clima affiatato e da famiglia allargata. Ora cerchiamo di rimboccarci le maniche. Al momento, mi fido ancora delle mie percezioni di quando ero giocatore.
Il festival FICTS, che apre domani sera, è un festival di cinema, tv e sport. Quali sono i film o i documentari che preferisci sullo sport?
Mi piace molto When We Were Kings, Quando eravamo re, sull’incontro tra Ali e Foreman a Kinshasa, una roba spettacolare e, non a caso, film premiato con l’Oscar per il miglior documentario. Poi i doc della serie ESPN 30, come Kings Ransom sul giocatore di hockey Wayne Gretzky e, sul basket, Once Brothers, storia dell’amicizia tra il serbo Divac e il croato Petrovic, legame stroncato dalla guerra nei Balcani. Entrambi in NBA, un tempo "fratelli", poi divisi dal conflitto e dalla Storia. Un film stupendo.
E libri di sport o biografie che raccontano i campioni ne leggi?
Amo moltissimo i libri di sport, di solito le biografie o autobiografie di campioni, ne divoro in quantità. Dalla vita di Agassi, che non ho apprezzato del tutto perché odia troppo il suo sport, fino a quella di Tyson. Uno dei migliori è Il re del mondo su Ali, scritto da David Remnick. Tra gli altri preferiti cito: Tutti i cerchi del mondo della giornalista Emanuela Audisio (ospite del FICTS domenica prossima, nda)e Fuoriclasse. Storia naturale di un successo del giornalista e sociologo canadese Malcolm Gladwell. Racconta come la cardiopatia può calare nelle comunità prive di stress e ricche di solidarietà, ovvero l’ambiente ideale per chi pratica qualsiasi sport, ma ovviamente luogo ideale non solo per gli sportivi. Detto questo, presto scriverò anche io un libro sulla mia vita. Credo lo intitolerò: Non mi vergogno! Magari in copertina ci sarò io seduto sulla tazza del cesso. O magari no.
Sabato al festival FICTS passerà un documentario RAI sugli italiani in NBA. Cosa pensi di Bargnani, Belinelli, Datome e Gallinari?
Partiamo dal presupposto che sono clamorosamente invidioso e che se fossi nato qualche anno dopo ci sarei anche io in NBA, dico solo che sono quattro giocatori davvero forti e dei bravissimi ragazzi! È banale dirlo ma la NBA è l’ambizione di chiunque giochi a pallacanestro! È una vita a sei o sette stelle lusso! Oltre a essere bravo, anche la sorte deve un po’ aiutarti ad arrivarci, però, l’anno in cui feci un provino per Toronto giocai bene la prima partita ma non c’era l’allora headcoach a vedermi, la seconda feci cagare e lui c’era...
La prima vittoria da allenatore l’hai dedicata al grande Chicco Ravaglia (suo compagno a Varese, ma anche giovane stella della Virtus Bologna e di Cantù, nda). Qual è il ricordo più bello che hai di lui a quasi quindici anni dalla scomparsa (il prossimo 23 dicembre)?
Le prime due partite da allenatore di Varese le ho vinte e a vederci c’erano i genitori di Chicco, Morena e Bob Ravaglia (ex cestista-bomber da più di 10.000 punti in carriera, nda). Tutte le altre in cui loro non erano presenti le abbiamo perse. Non è un caso.
Chicco era alquanto bravo e un amico vero, c’era una fraternità goliardica fra noi. Insieme eravamo due imbecilli che sapevano giocare e divertirsi. Per questo ci mandavamo a quel paese regolarmente e il rammarico più grande è che quell’ultima telefonata che mi fece mi svegliò e fui brusco. Ricordo la sua vocetta e la risata da Joker (ne fa un’imitazione impressionante, nda). Lo mandai affanculo perché mi aveva interrotto il sonno, e invece non ci saremmo più sentiti. Avrei voluto e dovuto dirgli: «ti voglio bene!».
Chicco, unico, è il genere di giocatore che vorrei tanto poter allenare oggi.
La nostra NBA di Maurizio Fanelli, sab 6 dicembre, ore 22.05, Sala Parlamentino