Dopo undici giorni di festival, workshop e aperitivi è giunto il momento per i direttori artistici del MFF, Alessandro Beretta e Vincenzo Rossini, di stilare un bilancio di questa 19a edizione. Il loro sodalizio dura da quattro anni. Tra pregi e difetti, ecco la loro storia.
Come si fa un festival quando si è due teste e una figura?
Alessandro Beretta: Dialogando, confrontandoci, a volte litigando, a volte reinterpretando la posizione opposta. Bisogna essere controintuitivi. Si trovano accordi. Nel coordinare il gruppo cerchiamo di favorire la liberazione delle singole energie editoriali. Alcuni dei focus sono nati così, quest’anno abbiamo invitato i nostri selezionatori a fare proposte editoriali, discutendo insieme le idee. Non esiste un equilibrio a priori, tutto accade in corso d’opera.
Vincenzo Rossini: Non lavoriamo dividendoci i compiti, non c’è una lottizzazione, ci confrontiamo su tutto. È bello ogni tanto cambiare opinione e riorientare il proprio giudizio.
Quale scelta vi ha diviso di più?
VR: Uno dei due vincitori, Navajazo, ci ha diviso moltissimo. Un film senza curriculum, che abbiamo visto prima di qualsiasi feedback internazionale e prima della partecipazione a Locarno. Un’opera fortemente radicale che sovverte molte delle regole del cinema documentario e di finzione, a servizio di un tema forte come quello dell’inferno della frontiera. Sicuramente disturba lo spettatore. La nostra discussione non è stata tanto sulla bellezza del film, quanto se all’interno del festival potesse essere calzante con l’idea editoriale che avevamo. Non sveleremo chi era favorevole e chi contrario, ma alla fine ci abbiamo scommesso insieme ed è uno dei titoli di cui andiamo più fieri.
AB: Avevamo opinioni molto diverse, di stampo etico, in una discussione notturna durata ore. È stata una scommessa vincente. Tutti i film possono più o meno piacere, ma questa è una di quelle tessere del mosaico che dividono. Navajazo o lo ami o lo odi. Non si può dire la stessa cosa degli altri titoli in concorso.
Come organizzate il calendario di un festival così vasto?
VR: Programmare per me è la parte più bella.
AB: Per me no. La mia passione è accostare i film alle rassegne, mettere insieme i titoli è un’arte critica. Henry Langlois ce lo insegna. La gestione del calendario è un’abilità di Vincenzo.
VR: Non abbiamo criteri matematici. Le sale sono luoghi che Milano riconosce per la loro identità e funzione. Quindi, da un lato, stiamo attenti ad accostare il film al tipo di pubblico che normalmente frequenterebbe quella sala; dall’altro, capita di unire generi e persone diverse. Ho un esempio calzante: l’Auditorium San Fedele ha una tradizione di cineforum forte e definita, con un suo pubblico specifico. Come bilancio finale possiamo ritenerci soddisfatti perché la sala, che ha una capienza di 500 posti, ha raggiunto in quasi tutte le proiezioni il pienone. Questo significa che siamo stati bravi a capire l’identità del luogo e a scegliere i film giusti per quella sala. Conta anche l’orario e le discussioni innescate dai film…
AB: [Interrompendo] Questo non andrebbe svelato, sono le nostre strategie, dai.
VR: Ma perché? A me diverte raccontarlo. Insomma, il film più scottante lo teniamo per gli ultimi giorni del Festival. Come per il film presentato al MFF nel 2012 Il n’y a pas de rapport sexuel, un vero e proprio backstage di film porno, molto forte.
AB: Basta però! Non svelare tutto. Diciamo che ci teniamo per ultimi i film che creano suspense e aspettativa nel pubblico.
Il particolare che vi spinge a scegliere un film?
AB: Nella composizione del concorso ciò che cerchiamo è la visione degli esordienti. In un giudizio estetico, il loro cinema affronta argomenti già trattati, ma prova a sbloccarli dal cliché. Il bello del nuovo cinema è che può proporre altre narrative. Oppure racconta storie inaspettate, penso a Navajazo o The Tribe. Altra cosa è invece tutto il lavoro del team di selezione che ragiona anche sulla nazionalità e sulla situazione produttiva del film. E anche il curriculum festivaliero.
VR: In negativo talvolta, non possiamo scegliere troppi film da uno stesso festival.
Quanto ammiccate al pubblico nelle vostre scelte?
VR: Non lo facciamo con malizia o furbizia. Cerchiamo sempre di dare un’offerta al nostro pubblico. Sul concorso proviamo a rimanere il più fedeli possibile alla nostra idea. Chiaramente facciamo anche scelte più generali, considerando l’identità eterogenea del pubblico. L’ideale è il cinema di ricerca che conquista il pubblico generico.
AB: Ci vuole equilibrio. Facciamo un lavoro panoramico. Gli angoli d’immaginario dimenticati o di culto sono oggetto delle sezioni fuori concorso.
VR: Sì, nel fuori concorso le regole cambiano, portando al cinema ambiti di interesse diversi. Penso a From Deep e al suo racconto sulla storia del basket legata alla nascita dell’hip hop. Ma anche Europe in 8 Bit o Doc of The Dead, film che tra l’altro è riuscito a portare dentro al San Fedele un gruppo di metallari, mai visti al MFF.
AB: E mai entrati all’Auditorium San Fedele. È bello portare al cinema sempre più persone, perché il cinema è questo: un gesto sociale, da fare insieme e da discutere dopo. Magari sul Sagrato o sotto il Parklive.
Pregi e difetti lavorativi dell’altro direttore?
VR: Il pregio di Ale è che conosce in modo molto più istintivo ed emotivo il bioritmo del Festival, rispetto a me che sono più calcolatore. E questo lo rende capace di avere intuizioni che funzionano tantissimo, come volere a tutti i costi Io sto con la sposa, andato sold out. Lui conosce il Festival da molti più anni di me, io ci lavoro da 8 anni, lui praticamente c’è nato, ha iniziato 16 anni fa. Di negativo c’è che quando viene fatta una proposta, la sua reazione iniziale è spesso di contrarietà. Fa muro, soprattutto se vede che sei troppo “gasato”. Ormai so come aggirarlo.
AB: Il pregio di Vincenzo sono le sue intuizioni pop, io sono troppo di nicchia o snob a volte, lo ammetto. Lui invece ha idee più aperte verso tutti, penso a Video Espanso, da me subito criticata non per una questione di linguaggio, ma per una mia cattiveria musicale. Lady Gaga? Chi è Lady Gaga? Ma poi ho capito che era un racconto importante su un tema che può interessare molti. Il suo difetto è che a volte è troppo nerd, è razionalissimo, rimane bloccato in gabbie di programmazione.
Vi sentite più locali o internazionali?
[ridono] AB: Internazionali, ma in tram.
VR: Mi piacerebbe essere sempre internazionale, ma non posso dimenticare che il MFF ha un forte radicamento locale che lo tiene vivo.
Siete più corto o più lungo?
[qualche secondo di esitazione ma rispondono all’unisono]
AB+VR: Più Lungo
Siete più Documentario o più Finzione?
VR: Sono sempre più sorpreso dal documentario, oggi. Però quando la finzione ti sorprende è sempre qualcosa di incredibile. Come The Tribe.
AB: Sottoscrivo. Io sono per i film di frontiera, che sono borderline sul genere. Anche se il documentario ha più libertà di codice.
Chi è più social?
VR: Non lo so, perché tu [rivolgendosi a Beretta] sei molto Twitter...
AB: Mentre tu sei molto Facebook.
Chi è più chioccia nella gestione dello staff?
AB: Vincenzo. Io sono più il Piccolo Principe.
Chi regge di più alla sera quando il Festival diventa Festa?
VR: Alessandro. Io sono più vecchietto nei miei modi, alla sera mi diverto, incontro gente, ma la stanchezza si fa sentire e vado a casa. Lui è un irriducibile.
AB: Io purtroppo sono un animal party.