LA PAROLA DI XAVIER

LA PAROLA DI XAVIER
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Una potente performance di Dolan, lo studio di uno psicanalista che diventa palcoscenico, un inseguimento verbale dove si perde di vista chi sia il gatto e chi il topo. Elephant Song è un suspense drama dal finale imprevedibile

 

«Non ha mai incontrato Michael?» chiede preoccupata l’infermiera Peterson (Catherine Keener) al dottor Green (Bruce Greenwood), direttore dell’ospedale psichiatrico dove Michael è ospitato. Michael è un manipolatore, lo mette in guardia la donna. Gli piace giocare.

Gli spettatori di Elephant Song, a differenza dello psichiatra, l’hanno incontrato nel breve flashback che apre il film: bambino a Cuba nel 1947, ignorato dalla madre, famosa cantante d’opera circondata di fiori e fan adoranti. Premessa eloquente. L’aria che la cantante intona è O mio babbino caro da Gianni Schicchi.

Il dottor Lawrence che ha in cura Michael è sparito, all’ospedale sono tutti molto preoccupati e Michael è l’ultima persona che lo ha visto. Scucire al paziente la verità, individuarla tra le bugie, le provocazioni, gli astuti depistaggi è un compito arduo che il film di Charles Binamé, tratto dalla pièce omonima di Nicolas Billon, traduce nella forma del “suspense drama”, di un incessante inseguimento in cui si perde di vista chi sia il gatto e chi il topo e il principio di autorità viene spesso sovvertito. La stanza della terapia diventa allora un palcoscenico e sono pochi eloquenti flashback a illuminare il passato di Michael e le ragioni della sua presenza in quel luogo. Xavier Dolan, febbrile e inquietante nei panni del protagonista, è poco portato a fare eccezioni alla regola autoimposta di non recitare se non in opere da lui stesso concepite. Non è difficile intuire perché abbia deciso di farlo in questo caso.

 

Elephant Song di Charles Binamé, Canada 110’

Lunedì 6 luglio, ore 22.15, Teatro Strehler

 

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