Come si pensa, si costruisce, si filma la realtà? Nella masterclass “Filmare l’invisibile” che ha tenuto domenica, la regista Costanza Quatriglio ha seguito la scomposizione e l’ideazione del suo ultimo film, Triangle
Il film dell’autrice siciliana, Nastro d’Argento 2015, mette assieme due tragedie nel mondo del lavoro, di diversa entità, ma ugualmente significative. Parlando di Triangle nella lezione alla Fabbrica del Vapore, la regista ci svela i procedimenti con cui si realizza un film, come si entra in relazione con la realtà che si filma, come vanno cercati spunti di riflessione alternativi, oltre la semplice riproduzione, al di là del documentario canonico.
Due racconti paralleli.
Nella prima parte di Triangle gli eventi del 1911 e del 2011 si affiancano su due binari paralleli, dialogando attraverso analogie e paragoni. Quando il film passa dal discorso su ciò che è accaduto ad un discorso più specifico sul lavoro, le narrazioni si mescolano, alternando col montaggio le immagini di antiche cucitrici e apparecchiature del maglificio di Barletta. Le due storie si sovrappongono e si uniscono infatti nel momento in cui si coglie che, nonostante un secolo separi le vicende, la condizione del lavoratore è la stessa: una forma di schiavitù interiorizzata. Ma superato questo momento, i due racconti si separano nuovamente. Prendono due strade diverse a seconda dei contesti diversi. L’organizzazione del lavoro delle fabbriche che faceva riferimento al taylorismo ad inizio Novecento ha portato a dei movimenti di contestazione, lotte e scioperi determinanti per raggiungere la consapevolezza dei diritti sul lavoro. A Barletta invece manca il conflitto, la frizione. Il film racchiude un’altra divisione interna: la prima parte del film non ci si addentra nella fabbriche, si sta al di fuori. Per conoscere il mondo del lavoro, bisogna varcare la soglia.
La tragedia greca come modello della struttura del film.
Il modo migliore e più efficace che avevo in mente per entrare nei meandri del dolore di queste vicende è stato quello di pensare e scrivere il film come una tragedia classica. A partire dalla presenza dell’antefatto. Ho mostrato lo stupore negli occhi degli immigrati di inizio Novecento di fronte alle altezze ed enormità di New York. La città statunitense vista come un nuovo mondo, la promessa industriale di una civiltà che si spalanca. Una promessa immediatamente tradita, quando si mostra l’incendio come buco nero della civiltà. Il primo dei cinque atti viene introdotto da un coro: è la voce della comunità, del gruppo sociale che aiuta lo spettatore ad elaborare il lutto. Il film è un continuo dialogo con il gruppo, perché se non c’è una comunità non c’è una tragedia. Seguiamo la testimonianza di Mariella, l’eroina tragica, che non ha nulla attorno a sé, solo la parrocchia. Da sola porta il peso della Storia, parla per la sua generazione e per tutti. Mariella non è altro che il veicolo della tragedia della comunità mondo.
Non è un film a tesi.
Con questo film non voglio dimostrare qualcosa, è il frutto di un’intuizione. Un film deve semplicemente mostrare. Triangle non è solo il nome della fabbrica di New York, ma anche una forma geometrica. Giocare sulla parola, richiamando il concetto di teorema. Non è un insieme di postulati. Il discorso del film poi non va confuso con quello dei testimoni. Il racconto di Mariella ci aiuta a capire il suo dolore, e la fuoriuscita da esso attraverso una dimensione privata. Ci conduce fino alla conclusione a cui lo spettatore crede:”Il palazzo sarebbe crollato comunque, anche se noi fossimo state lavoratrici in regola”. Mi sono concentrata su questo discorso, apparentemente scoraggiante, e mi sono posta in relazione con il mio stupore per questa affermazione. Una frase che mi ha fatto capire la necessità di questo film. Un film che deve riempire un buco vuoto, il vertice mancante di un triangolo fra il 1911 e il 2011, tutto ciò che è passato in questi anni.
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