GIAMPAOLO MARZI - 28 MILITANTI MIX

GIAMPAOLO MARZI - 28 MILITANTI MIX
di

Il direttore racconta il suo festival: “Un'edizione di cambiamento”

 

Mancano poche ore all'inaugurazione, Giampaolo Marzi ci raggiunge in redazione e davanti a un caffè parliamo del programma e della storia di Mix, il festival LGBT che ha fondato e che dirige da ventotto anni.
Marzi, che vive tra Milano e Montreal, è osservatore attento degli immaginari LGBT, ogni anno, e ogni edizione, è per lui e per il suo gruppo di lavoro una scommessa, tra passaggi e trasformazioni. Per essere nel proprio tempo, e per inventarne o scoprirne le tendenze.

 

Durante l'edizione 2013 sono stati venduti più di 30.000 biglietti. Come si è trasformato negli anni il vostro pubblico?

Il nostro è un festival di comunità ma raccoglie un pubblico trasversale, negli anni sempre più folto, che in media si muove tra le 5 alle 8.000 persone. Il Mix fa riferimento a una collettività forte e radicata, anche se al suo interno convivono differenti identità. La difficoltà, cresciuta negli ultimi anni, è quella di evitare che nascano tensioni rispetto al mandato del festival. Siamo partiti come semplice rassegna cinematografica per poi aprirci alla multidisciplinarità. Con questa edizione torniamo al nostro progetto primario che è il cinema.

 

Quali le novità del 2014? Avete eliminato il DJset sul sagrato dello Strehler, problemi di budget?

In Italia siamo stati tra i primi a portare la musica elettronica all'aperto, gratis e di giorno, ma il DJset è nato per essere un accessorio dell'evento cinematografico non per diventare più spettacolare del festival stesso. Senza contare il peso che l'iniziativa ha avuto sulle risorse economiche destinate alla programmazione del Mix. Dopo due anni di crisi, oggi lavoriamo con un terzo del budget previsto. Abbiamo fatto una scelta: priorità alla "communal spectatorship", senza cercare un compromesso a tutti i costi, o nascondere un mancato rinnovo dietro il pretesto dell'austerity. L'idea è di ripartire con una formula nuova, fare di necessità virtù. Fino allo scorso anno abbiamo proposto una delle dinamiche aggregative caratteristiche della comunità gay, il clubbing, e forse è per questo che siamo stati fraintesi, ma trasformare il Mix in una sorta di Gay Village milanese non è mai stato nelle nostre intenzioni. Una visione commerciale della kermesse che non ci appartiene.

 

In concorso documentari, lungometraggi e corti provenienti da tutto il mondo. Come lavorate alla selezione dei film?

Siamo partiti molto tardi con i bandi e abbiamo ricevuto molti più corti che lunghi. Il mandato tematico limita la selezione, nell'arco dell'anno verranno prodotti circa 60 titoli possibili tra main stream, opere medio alte e film legati a circuiti più ristretti. Per i documentari e i lungometraggi ci affidiamo alle selezioni dei festival di genere più importanti a livello internazionale e alla nostra opinione personale. Siamo in 4: io, Rafael Maniglia, Cecilia Ermini e Marcello Paulillo. Lavoriamo in modo collettivo, senza schemi e imbalsamature, l'orientamento sessuale di chi sceglie i film e le loro sezioni di riferimento non devono corrispondere per forza. Superiamo le categorie!

 

Il festival porta a Milano molti film internazionali, la maggioranza senza distribuzione italiana. Il Mix aiuta a uscire in sala?

Per anni siamo stati molto forti nella diffusione e promozione delle opere presentate al festival. Dal 2001 al 2007 abbiamo collaborato con Mikado, ex società di produzione e distribuzione italiana. Al Mix presentavamo le anteprime dei film che poi il gruppo distribuiva con la collana Queer in dvd e a volte in sala. Nello stesso periodo lavoravo come buyer per un canale televisivo tematico, grazie a questo siamo riusciti a dare corpo alle ambizioni del festival. In partnership con Mikado avremo distribuito un centinaio di titoli, tra i più assurdi e di vari generi, tutti sottotitolati. Purtroppo altri distributori sono ancora convinti che passare dal Mix significhi etichettare le proprie proposte, senza capire che potrebbero solo ampliare il loro pubblico di riferimento.

 

Un regista scoperto dal Mix...

Bruce LaBruce e il buon Xavier Dolan. Entrambi son entrati in Italia dalla porta del Mix. Dolan nasce a Cannes nel 2009, selezionato alla Quinzaine des realisateurs con J'ai tué ma mère, dove ha vinto ben 3 premi (Premio Art Cinéma, Premio SACD e Premio Regards Jeunes). In Italia non lo conosceva nessuno. Ci siamo accorti di lui ben 3 anni prima che approdasse alla Mostra di Venezia. Il suo Tom à la ferme! è in programma per l'ultima serata del festival.

 

Dalla metà degli anni '80 ad oggi, come è cambiato l'immaginario LGBT?

Abbiamo superato le posizioni del New Queer Cinema di quel periodo, che proponeva un'immagine positiva della comunità, più militante. Oggi il cinema LGBT è spaccato in due: in paesi come il Canada, dove abbiamo una legislazione che riconosce i nostri diritti, le nuove tendenze prediligono una maggiore leggerezza rispetto alle categorie del “genere”. Lo stesso si può dire della Svezia da dove viene Something Must Break di Ester Martin Bergsmark. Invece a realtà in cui sono ancora molto forti discriminazione, sessuofobia e repressione corrisponde un cinema in lotta, che ha bisogno di un'identità definita. Penso al documentario Invano mi odiano di Yulia Matsiy.

 

Il cinema LGBT segue la geografia dei cambiamenti culturali: quali le nuove tendenze, e dove si produce di più?

La tradizione anglosassone è fortissima. Da quando si è istituzionalizzato il cinema Queer si è consolidata la richiesta, e dove c'è pubblico c'è produzione. In Europa e in Nordamerica, floridi investimenti vengono dalla TV dove hanno successo serie come Six Feet Under. In questi contesti il mondo LGBT è rappresentato senza trucco, può essere satirico, esistenziale ma non necessariamente vittimistico, come alle sue origini. Visione che però non esaurisce il mandato del cinema tematico, semmai è una sua versione ridotta.

 

E nei paesi dove essere gay è considerato un crimine?

Il cinema è ancora uno strumento di lotta. In Russia, in India, nei paesi arabi, in Nigeria, in Uganda, da dove arriva The Abominable Crime di Micah Fink e l'omosessualità è punita con la pena di morte, l'esigenza di una militanza artistica e politica rimane molto forte.
Come direttore del Mix, credo che questa doppia identità sia un pregio, e che la spettacolarità e i contenuti più popolari del festival devono convivere con l'urgenza della denuncia. Le conquiste del movimento non vanno date per scontate. Anche in Italia non è ancora il momento di abbandonare l'impegno, dal punto di vista legislativo siamo arretrati, nonostante la società, almeno al nord, tenda ad essere molto inclusiva.

Articoli recenti

Daily