Abbiamo intervistato Mattia Colombo, autore di Voglio dormire con te che verrà presentato stasera Fuori concorso. Un documentario intimista e metatestuale che mette a fuoco la complessità delle relazioni affettive contemporanee
Cinque storie raccontano una generazione dall’equilibrio precario, in bilico tra desiderio di emozioni e paura di legami. In Voglio dormire con te Mattia Colombo cerca una risposta a un malessere condiviso, quel malessere che nasce quando in una relazione siamo posti davanti a delle scelte, a degli impegni che non ci trovano preparati. Il tempo sfugge dalle mani, tanto da non sembrare più nostro; le opportunità si moltiplicano, tanto da rendere impensabile dedicarsi a una sola di esse. L’amore di questo documentario ricorda l’«amore liquido» di cui scrive Zygmunt Bauman, un sentimento costantemente plasmato da tempi e linguaggi. In un dialogo fra generazioni diverse si cerca un punto di incontro per confrontarsi sui rispettivi modi di vivere l’intimità.
Voglio dormire con te racconta cinque storie intime, concentrandosi su una precarietà affettiva ed emotiva diffusa.
Parlando con amici e conoscenti mi sono reso conto che condividevamo la medesima condizione di costante incertezza affettiva. Ho iniziato a pormi delle domande, a tracciare una linea che unisse delle storie. La scelta è andata sul documentario e non su un film di finzione, perché sentivo una necessità di realtà e di verità maggiore. Allo stesso tempo mi stavo separando dal mio compagno e questo ha acuìto il mio bisogno di fare chiarezza sul “sentire”. Poi in realtà di chiarezza non se ne fa per niente. Forse una soluzione è non farsi troppe domande e lasciare che siano gli eventi a lasciarci qualche risposta.
Nel racconto il dialogo con tua madre ha un ruolo determinante. Quella scena ha migliorato il vostro rapporto quotidiano?
Il dialogo fra me e mia madre è quello tra un qualsiasi figlio e un qualsiasi genitore: una sorta di confronto tra due generazioni che parlano i rispettivi vocabolari e faticano a comunicare fra loro. Questa scena è servita a me e al film soprattutto per creare una frattura, fra quello che è stato prima e quello che deve iniziare a mutare. Il parallelismo fra il mio modo di vivere le relazioni e quello dei miei genitori è inevitabile, anche scomodo. Oggi tutto viene consumato in modo diverso, bulimico, come se non ci bastasse mai nulla. Quella scena fa da giro di boa, sia per la mia consapevolezza di autore sia per me come personaggio del film.
Le immagini delle finestre dei palazzi vicini tornano in modo ricorrente. Sono un modo per simboleggiare questa frattura?
Da un punto di vista cinematografico è un modo per moltiplicare le storie che vedi e racconti. Qualcuno ha giudicato il mio film come «imparziale», io però non ho mai pensato di fare una summa totale dei modi di amare nel 2015. Volevo parlare delle persone a me vicine che stavano vivendo un periodo complesso della loro relazione. Le finestre in questo senso si pongono come un modo per dire allo spettatore che io ho scelto cinque storie, ma ne esistono molte altre. Quelle finestre le ho usate per dare l’idea di quanti mondi si nascondano nelle case in cui non sono mai entrato.
Nel film sono protagonisti anche i telefoni, i messaggi che i personaggi si inviano, le chat. Quanto influiscono nella costruzione di un rapporto oggi?
L’utilizzo dei social, delle chat e di app come Tinder e Grindr ha cambiato e sta cambiando il modo di conoscersi, di vivere relazioni sentimentali e sessuali. Le tecnologie possono essere utili, fanno emergere il lato edonistico che spesso nascondiamo, accorciano tempi e distanze. Non dico che una storia iniziata in chat non possa diventare qualcosa di stabile e importante.
Tuttavia, in un momento dove tutto è precario, dove le relazioni non godono più del privilegio di investimenti certi, sapere che dietro ogni angolo c'è qualcosa di meglio e facilmente raggiungibile non aiuta nelle scelte. In un attimo diventi insaziabile e, con la paura di precluderti nuove opportunità e incontri, rischi realmente di perdere qualcosa che hai già. Con il film ho cercato di intercettare un malessere comune, sicuramente la paura delle scelte definitive è un tarlo molto comune della mia generazione.
Come sei riuscito ad avvicinare i tuoi amici in momenti così delicati delle loro relazioni?
Il lavoro del documentarista è molto lungo, richiede una fase preparatoria per abituare i personaggi alla presenza della macchina da presa. La scelta di persone a me vicine ha facilitato la reciproca fiducia. Alcune delle persone al centro del film, come Roberto e Silvia, erano così coinvolte nel loro dramma privato che la mia era una presenza “assente”. Il dolore li coinvolgeva così tanto da non fare più caso a me. In altre situazioni è stato invece più difficile, perché alcuni protagonisti faticavano a confrontarsi con i propri sentimenti.
La macchina da presa è stato un po’ uno schermo dietro cui ti sei nascosto? Anche tu vieni messo sotto una lente di ingrandimento in certe scene del film…
La macchina e lo schermo sono stati una protezione sin da subito, quasi uno scudo. Non è stato facile entrare nel film come personaggio, non pensavo di dover raccontare così tanto di me quando ho iniziato a sviluppare il progetto. Più ci lavoravo, più entravo nelle storie degli altri e più ho capito che era necessario ci fossi anche io. Il film finisce quando ho deciso di mettere la macchina da presa da parte e iniziare a vivere le situazioni senza più filmare. Alla fine ho compreso che non si possono trovare delle risposte, forse solo qualche soluzione provvisoria. Le soluzioni ti permettono di stare bene con quello che hai, senza l’ossessione di un modello o di uno schema.
Voglio dormire con te di Mattia Colombo, Fuori concorso, ore 21.00, Arcobaleno Film Center sala 1, alla presenza dell’autore.