QUELLA NAPOLI DI SARAJEVO

QUELLA NAPOLI DI SARAJEVO
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Il documentarista Leonardo Di Costanzo abbandona provvisoriamente la sua Napoli, teatro e indiscussa protagonista delle sue precedenti opere, per dirigere L'avamposto, uno dei 13 episodi del film collettivo I ponti di Sarajevo, presentato nella città bosniaca, a Pesaro, a Cannes e quest'anno al MFF.

 

Incontro Di Costanzo in un caffè di via Paolo Sarpi, uno scambio di battute sulla nostre comuni origini e un attimo dopo le sue parole, calde e accoglienti, ci conducono con disinvoltura al motivo del nostro appuntamento, che più che una semplice intervista si rivelerà una piacevole e stimolante chiacchierata.

 

 

Vorrei cominciare con la citazione che chiude  L'avamposto: «La maggior parte erano contadini e operai mandati a combattere per un'idea di patria a loro sconosciuta», un messaggio forte e chiaro. La sua idea è stata quella di mettere in scena la paura dei soldati e la loro ostilità verso qualcosa che non conoscevano?

 

L'Italia si è fatta conoscere proprio attraverso la prima Grande Guerra chiamando a combattere contadini e operai del Sud in nome di un'idea di patria che loro non capivano. E credo che lo Stato sin dall'inizio si sia fatto conoscere non come ente protettore, bensì come un ente che ti strappa via dal quotidiano senza spiegarti neanche il perché.

E infatti il suicidio del tenente Morana non è un atto di paura quanto piuttosto un atto estremo di ribellione.

 

L'avamposto trae ispirazione dal racconto La paura di Federico De Roberto. Quali sono le differenze?

Nel racconto di De Roberto i personaggi prendono vita e corpo attraverso la paura, io ho dovuto selezionare solo alcuni elementi perché avevo il vincolo degli 8 minuti. Il personaggio che più mi interessa è il tenente, il suo essere diviso tra la logica della guerra e i sentimenti che lo legano ai soldati. Una figura particolare su cui anche il racconto di De Roberto resta ambiguo. Una persona dilaniata da un lacerante conflitto. Mi sono reso conto solo dopo quanto i miei film in effetti ruotino sempre attorno a personaggi complessi, afflitti da forze opposte.

 

Tra i registi de I ponti di Sarajevo, molti si sono concentrati sulla guerra balcanica. Lei invece sceglie di offrirci uno sguardo sul primo conflitto mondiale. Come mai?

Non conoscevo Sarajevo e avevo vissuto la guerra dei Balcani dal punto di vista dei cattivi. Quindi non me la sentivo di raccontarla, non sarebbe stato sufficiente andarci solo una settimana ai fini del racconto.

La produzione non ha richiesto di fare un film su Sarajevo. Ognuno di noi ha trovato il suo sguardo personale, su una città che è un po' una metafora di convivenza e di conflitti.

 

Com è nato questo progetto corale? E quanto c'è di collettivo?

È nato come omaggio al centenario della Grande Guerra. Sono stato avvisato che c'era questo progetto europeo e che per rappresentare l'Italia avevano pensato a me. La cosa mi interessava, ma non avendo già un'idea ho chiesto 15 giorni di tempo per pensarci.

Ogni autore ha lavorato per conto suo e ha messo in campo il proprio sguardo senza interrogare quello degli altri. Ho visto il film per la prima volta a Cannes ed è stato lì che ho incontrato gli altri registi, Godard non c'era.

 

Un film di questo tipo non corre forse il rischio di sacrificare l'unicità dell'opera per porsi più come un contenitore di punti di vista?

Il film è caratterizzato dalla molteplicità e diversità degli stili delle opere. E lo spettatore potrebbe essere disorientato dalla mescolanza di sguardi molti diversi.

È un film difficile da concepire come opera unica, credo che all'interno di una videoinstallazione avrebbe modo di esprimere al meglio la propria identità multipla e metterebbe in campo un diverso tipo di fruizione da parte dello spettatore.

 

Torniamo a L'avamposto. Lo ha girato in Trentino in una vecchia trincea. Come ha gestito le diverse fasi di lavorazione?

Come prima cosa abbiamo preso il racconto e iniziato a selezionare i contenuti. In Trentino siamo andati alla ricerca di trincee, e anche se sarebbe stato necessario ricostruirle non c'è stato il tempo. Ho voluto girare tutto in una grotta, lo rendeva più astratto.

Il processo di lavorazione con gli attori è stato abbastanza lungo e meticoloso. All'inizio volevo trovare attori non professionisti ma per questioni di tempo alla fine ho scelto attori di diverse scuole.

Sono bastati poi due giorni di riprese e tre settimane di montaggio.

 

Passiamo ora alla sua carriera da documentarista. Pur continuando a parlare di Napoli, L'intervallo segna un importante momento di transizione. Cosa l'ha spinta ad abbracciare la fiction e quanto questo l'ha influenzata e influenzerà i suoi lavori futuri?

A spingermi è stata soprattutto un'esigenza narrativa, ero in crisi, e per le cose che volevo raccontare il documentario sembrava non bastarmi più, avrei dovuto inserire elementi di finzione nella realtà filmata, operando una strumentalizzazione dei personaggi, per renderli funzionali al racconto. Questa cosa mi infastidiva per una questione di rispetto verso le persone. Volevo andare oltre il semplice filmare il quotidiano, raccontare l'interiorità, ma visto che non credo nell'intervista ho deciso di virare nella finzione. Oggi quasi tutti i documentari sono pieni di finzione, e questo è un problema. Secondo me, invece, è importante per lo spettatore sapere che tipo di opera sta guardando, c'è un patto diverso tra lo spettatore e lo schermo in relazione a questo. Oggi qualunque telefono produce immagini, perfino su YouTube ci sono momenti di verità fortissimi. Il cinema deve prenderne coscienza.

In passato il documentario era valorizzato per la sua capacità di leggere la realtà, la finzione ne ha preso atto e ha iniziato a nutrirsi di esso. In questo modo i due generi si sono intrecciati sempre di più fino a smarrire il reale confine. 

 

Quindi il documentario tradizionale è in crisi...

Sicuramente ha perso la capacità di infilarsi nelle pieghe del reale. Quando guardo un documentario non riesco a crederci totalmente. Ho bisogno di capire e interpretare in modo personale questa nuova tendenza e trovare il mio modo di esprimermi, perché quello vecchio non basta più.

Oggi i documentari sono tecnicamente puliti, belli, la macchina da presa non si muove, ma quella strana calma nasconde un mondo filmato piatto e funereo. È tutto morto, la vita non c'è più.

Continuo a insegnare perché credo nella capacità narrativa della realtà e perché è importante continuare a interpretarla nelle sua crescente stratificazione e complessità. Il punto è capire quale sia la giusta distanza dalla quale osservarla.

Al momento mi sembra più corretto confrontarmi con la finzione, anche se continuo a credere molto nella realtà. Sto scrivendo un altro film e naturalmente parto da cose molto reali. È lei a venirti incontro se trovi la giusta angolazione e la chiave per leggerla.

 

Che consiglio darebbe a un giovane aspirante documentarista?

Ai miei studenti dico sempre che è fondamentale imparare a guardare e ad ascoltare. Dal punto di vista pratico ognuno deve trovare la sua strada, io ho iniziato molto tardi, quasi per caso. Volevo fare del cinema antropologico e a Parigi ho incontrato gli Ateliers Varan.

Un tempo non era così semplice fare il regista, non c'era e forse tutt'oggi non c'è, molta apertura verso questo settore, solo in Francia ho capito come questo fosse in fondo un lavoro come tutti gli altri.

 

Esperimento Europa

Les ponte de Sarajevo, sab. 6, ore 20, Teatro dell'Arte; lun. 8, ore 15, Spazio Oberdan; gio. 11, ore 19, Spazio Oberdan

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