CRONACHE AUDIOVISIVE DEL DOPOBOMBA

CRONACHE AUDIOVISIVE DEL DOPOBOMBA
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Non occorre attendere molto perché Machine Gun or Typewriter?, ultimo film dell’irriducibile Travis Wilkerson, scopra le sue carte e indichi, cioè mostri il principio della perversa associazione di idee tra l’arma automatica, la “mitragliatrice” (“machine gun”) e la “macchina da scrivere”. Coinvolgendo nella spietata “legacy” inevitabilmente la “macchina da presa”. Appena venti minuti e il nucleo problematico, principalmente audiovisivo, quindi storico e politico, si offre alla vista, rallentato, contemplato, analizzato: la tragicamente nota uccisione in diretta del prigioniero vietcong da parte dell’ufficiale della polizia di Saigon, che nel 1968 così cerca di “saziare” lo spettatore medio e la telecamera avida di notizie, ma anche di “rassicurare” il pubblico a casa che l’Offensiva del Tet è terminata, la capitale del Sud Vietnam era daccapo sotto controllo e l’ambasciata americana liberata dal nemico. Questa breve scena con il colpo sparato a breve distanza alla testa della vittima non è soltanto una tappa obbligata di un film emblematico, efficace anche come videoinstallazione, comunque sia per molti versi definitivo come Machine Gun or Typewriter?. Come in Stardust Memories di Woody Allen, il cui alter ego dell’autore, un cineasta comico che non ha più tanta voglia di (far) ridere, fa sì che questa stessa esecuzione (per l’opinione) pubblica (ergo la “macchina da presa”, pronta a scrivere con le immagini e ad alimentarsi di proiettili, auspicandoli) diventi l’immagine chiave, la fotografia che occupa l’intera parete, anche in Machine Gun or Typewriter? funge da punto di non ritorno: l’inizio di una dannazione della società dello spettacolo e dell’informazione in cui i messaggi di morte, veicolati dai canali audio e video, danno il senso della guerra, ne determinano il decorso, siglano la macabra e “comunicativa” evidenza degli eventi. Fino ai giorni nostri in cui, senza soluzioni di continuità, l’offensiva terroristica di al-Qaida, quindi dell’Isis agisce sulla rete, cerca di creare immagini con cui sedurre atrocemente, atterrire, offrire videoclip e spot come materiale sensibile (prove, “evidences”) ai media audiovisivi e ai social di tutto il mondo dove i followers si moltiplicano per pura pulsione scopica o presunto gusto di verità e conoscenza. 

 

In questo senso non occorre neppure attendere la lunga, lirica, dilazionata didascalia finale di Machine Gun or Typewriter? per consentire all’autore, su una mappa planimetrica e mentale di Los Angeles bersagliata da visualizzazioni grafiche di onde sonore, le conseguenze devastanti di un simile e diuturno meccanismo di azione-reazione, offensiva e controffensiva, che è nella sostanza l’irreversibile spirale “tecnica” della violenza: «The end of the broadcast isn’t the end of the story / within hours… / a series of bombs goes off... / at la times… / at city hall / at old rampart / the bombs are crude and weak / there are a handful of injuries / only minimal damage / someone tips off the cops about the show / they show up with a warrant / the map is still pinned to the wall / the map of their relationship / is also a map of the bombings / he tells his story again / they find no trace of the woman / no evidence she even existed / no physical evidence connects him to the bombings / but there’s the map / and the broadcast / so he’s convicted and sentenced to life / and the bombings stop / until / one year later / los angeles is hit by another wave of bombings / the bombs are sophisticated and powerful / the deadliest bomb goes off at the police academy / the attack kills 7 cadets and injuries dozens / the suspect remain at large / black dahlias are left at every bombing». 

 

Il bombardamento continuato e mirato cui si riferisce in esergo l’autore di Machine Gun or Typewriter?, figura autoreferenziale in campo, clandestina, invisibile dietro un necessario microfono, innamorata e militante, voce narrante in larga parte acusmatica, non risparmia obiettivi sensibili, istituzionali. Non li risparmia in quanto procede a una riflessione allargata, un’allegoria devastante, nonviolenta, poetica, di una situazione senza vie d’uscita, dove “informare” alla fine, seguendo una logica tragica, equivale a infornare armi di distruzione di massa oppure, in una strategia di guerra asimmetrica, organizzare attentati capillari. Dalla “vecchia” guerra genealogica sul piano mediatico consumatasi in Vietnam, passando attraverso stralci del film-manifesto La hora de lo hornos di Octavio Genino e Fernando Solanas, alle immagini del movimento Occupy LA (Los Angeles), tutto si snoda come sfogo, confessione privata, solipsistica, atto d’amore e di morte, censurabile, auto-censurato, inequivocabile. Sulla falsariga delle opere di Chris Marker (dichiaratamente indicato come “istigatore” di Wilkerson nei titoli di coda), ma anche – a nostro avviso - di Gervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, ecco che Machine Gun or Typewriter? si rivela innanzitutto un poema aperto, simbolico, concettuale, fattuale, realistico, fantascientifico. Le “cronache del dopobombra” di dickiana memoria sono ora diventate nella prospettiva di Wilkerson la nuova “passerella” aeroportuale (La jetée), il livello ultimo (Level Five) di un universo proiettato fin troppo in avanti. E in cui filmare è impossibile senza concorrere a perpetrare, evocare o reiterare provocatoriamente, complice l’alibi “artistico” delle immagini prevalentemente fisse, all’occorrenza in movimento, quantunque rese statiche dal ralenti, un crimine di lungo corso: una colpa individuale e collettiva, che comporta il bisogno (dell’autore) di nascondersi, negarsi alla vista, farsi carico della vergogna, perciò scudo del dispositivo di trasmissione del suono, sempre dentro la cornice dell’immagine. Ma anche un modo estremo, di metterci la faccia. Un atto dovuto, dolente, romantico, patetico, fantapolitico di responsabilità.

 

*Insegna cinema all’Università di Macerata e Bari, scrive su numerose riviste di cinema e in particolare nei suoi più recenti libri si è occupato di cinema politico-indiziario italiano, con un occhio di riguardo a Francesco Rosi. L’ultimo libro in ordine di tempo, con la prefazione di Giorgio Galli, è La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio vincitore nel 2014 del Premio Diego Fabbri.

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