IL TEMPO PRESENTE <BR> DENTRO UN FESTIVAL

IL TEMPO PRESENTE
DENTRO UN FESTIVAL

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Quando è nato, 26 anni fa, si chiamava “semplicemente” Festival del cinema Africano rimandando a quel movimento di idee, tendenze, rivoluzioni esplosi in quegli anni nel continente tra Maghreb e Africa subsahariana, con una generazione di registi (e non solo, la musica è ugualmente molto importante) che aveva deciso di occupare uno spazio nell'immaginario con un racconto alla prima persona, del proprio Paese. Che rovesciava il segno dell'esotismo coloniale, e postcoloniale, mescolava miti, leggende, battaglia quotidiana, resistenza politica in un'arma potenzialmente ad alto rischio, quale le immagini, che poteva arrivare a tutti, anche a chi non sa leggere e scrivere – lo aveva capito Thomas Sankara, che sul cinema aveva puntato molto del suo progetto di cambiamento politico e culturale nel Burkina Faso prima di essere ucciso.

 

Non che il cinema africano fosse iniziato in quel momento, c'erano stato già i film di colui che ne viene considerato uno dei “padri”, Sembène Ousmane – come ci ha raccontato un regista, anche storico tunisino, nome di punta in quegli anni, Ferid Boughedir – e alcuni magnifici ribelli come Diop Mambéty, ma diciamo che in quel momento, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta il cinema africano sembrava essere diventato un evento globale, scoperto da tutto il mondo.

 

L'Africa all'improvviso non era più soltanto bambini con gli occhi sgranati dalla fame, ma sulle tracce di “nonne” magiche - Yaaba di Idrissa Ouedraogo uno dei titoli di maggior successo - si disegnava un paesaggio inedito fatto di storie, persone, umorismo, inventiva, spudorato mash- up di segno contrario dell'iconografia occidentale sull'Africa.

E non c'era solo la brousse: sulle terrazze scoprivamo la forza delle donne tunisine contro la tradizione (ancora non si parlava di religione ma questa è un'altra storia), la lotta dei corpi contro violenze e censure, i legami tra la Goulette e la Sicilia, due sponde di un solo Mediterraneo...

 

Anche il Festival in Italia è stato una rivoluzione. Dell'Africa circolava poco e l'immagine diffusa era quella della miseria e delle lacrime, il colonialismo nella nostra storia è stato sepolto come la presenza delle comunità etiopi o somale. Ed ecco che invece si scopriva nel cinema una realtà diversa.

Cosa è accaduto poi sarebbe molto lungo da spiegare, qualcosa non ha funzionato, rapporti postcoloniali, mancanza di una formazione tecnica, il coproduttore occidentale che vuole sempre la stessa cosa imponendo ai registi africani delle costrizioni.

Ci sono sempre meno film e il Festival così ha allargato la sua ricerca, si è esteso ai tre Continenti, Africa, Asia, America latina mantenendo però quella caparbietà iniziale di esplorare quanto accade nelle zone meno illuminate degli immaginari da cui arrivano sempre dei cambiamenti – basta pensare alla vitalità del cinema latinoamericano. Resistendo anche ai tagli importanti di queste ultime edizioni. Strano no, perché di migranti oggi si parla tantissimo e non sarebbe male saperne di più dei luoghi da dove arrivano, e delle ragioni e dei legami tra l'Europa e quei paesi.

 

Il Festival però va avanti, diretto da Alessandra Speciale e da Annamaria Gallone e fabbricato dalla passione di tutto il gruppo di lavoro. Seguirlo è sempre un piacere e un bellissimo viaggio nel nostro mondo.

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