UN VIAGGIO NELLA STORIA

UN VIAGGIO NELLA STORIA
di

Intervistiamo Regina Schilling, vincitrice del concorso internazionale documentari Le Donne Raccontano con Tito’s Glasses, il road movie che ripercorre la Storia attraverso la vita dell’attrice Adriana Altaras

 

 

Tito’s Glasses è un viaggio attraverso l’Europa, dalla Germania alla Croazia, passando per l’Italia. Tutti luoghi che appartengono alla memoria di Adriana Altaras. Ebrea, figlia di due partigiani yugoslavi e cittadina tedesca, l’attrice e regista racchiude in sé l’ultimo secolo di storia europea. La regista tedesca Regina Schilling la segue nel suo viaggio catartico volto alla liberazione e allo stesso tempo ricerca di quegli spiriti che ancora la tormentano. Un film che parla di identità, di passato e di presente con uno sguardo al futuro; di memoria, quella che appartiene a tutti e quella che è solo di Adriana e dei suoi genitori. 

Regina Schilling, classe 1962, ha a disposizione un ricco archivio di materiale storico: fotografie, giornali, video in super 8. Insieme alla regista seguiamo Adriana in luoghi mitici come la cava di Tito, dove il generale trascorse gli ultimi giorni della guerra, e tragici, come il lager di Arbe, il campo di concentramento dove furono internati i suoi genitori. Parliamo con lei di come è nato e cresciuto questo film, vincitore del concorso internazionale documentari Le Donne Raccontano, Sguardi Altrove 2015

 

Come e quando hai iniziato ad occuparti di documentari?

Faccio documentari dal 2001. In passato ho studiato Lettere, ho lavorato in una compagnia pubblicitaria, poi ho iniziato a lavorare come giornalista e a fare cortometraggi che piano piano si sono trasformati in lungometraggi…

 

Come scegli i protagonisti dei tuoi lavori e le storie da raccontare?

Qualche volta penso che siano loro a scegliere me… Ok, no, però in un certo senso sono le storie a trovarmi, più che io a cercarle. Di solito dipende da quanto un’idea mi ronza in testa. Se è presente per più di un anno, so che devo trasformarla in un film. Su questa base so già quale sarà il mio prossimo progetto nel momento in cui sto lavorando a quello attuale. Inoltre, solo dopo che il film è pronto mi capita di notare un certo legame con la mia vita, un lato che spesso si nasconde e che viene a galla solo a lavoro ultimato.

 

Come mai hai deciso di fare un documentario sull’attrice Adriana Altaras e di accompagnarla in giro per mezza Europa?

Siamo amiche da oltre 20 anni. La storia della sua famiglia mi ha sempre affascinato, forse perché a differenza della sua, la mia è tipicamente tedesca. Avrei voluto fare un film sulla sua vita e la sua famiglia quando i suoi genitori erano ancora in vita, quindi più di dieci anni fa, ma il progetto non mi è stato finanziato. Poi me ne sono dimenticata, nel frattempo ho fatto altro, ma le ho detto di scrivere un libro, cosa che ha fatto davvero e in quel momento sapevo che era giunto il tempo di realizzare il film. Il libro, che ha avuto un grande successo in Germania (ne esiste anche una traduzione in italiano, Gli occhiali di Tito), è abbastanza diverso, lei non aveva ancora viaggiato in Europa (come invece vediamo nel documentario, ndr). Questa idea del viaggio è legata alla prima immagine che ho avuto nel momento in cui pensavo di fare un film insieme ad Adriana: lei nella vecchia Mercedes di suo padre… 

Un road movie riguarda sempre la ricerca di qualcosa o la fuga da essa. In questo caso lei le affronta entrambe: fugge dai suoi “dybbuks” (i suoi genitori; nella mitologia ebraica sono gli spiriti tormentati delle persone morte a cui è stato negato l’ingresso nel mondo dei morti, ndr), ma allo stesso tempo vuole trovarli. Quello che volevo io era mostrare tutto questo in tutti i Paesi d’Europa che sono parte di Adriana: in Germania parla tedesco, in Italia italiano e in Croazia croato. Lei è questo, un po’ di tutto.

 

Come avete lavorato insieme?

Essendo molto amiche, si è fidata ciecamente di me. Mi ha detto: «ok, facciamo questo viaggio e vediamo un po’ cosa succede». E aggiungeva sempre: «tu sei la regista, è il tuo film». Un vero e proprio regalo per me. Quello che non si aspettava è che il viaggio diventasse così fisicamente e psicologicamente intenso. Alla fine mi ha confessato che la parte più difficile è stata la mancanza di costumi (a parte la scena in cui si trova nella cava di Tito). Non poteva recitare di fronte alla macchina da presa, è stato problematico per lei che è abituata a “nascondersi” dietro a un ruolo…

 

Un’attrice professionista protagonista di un documentario, quasi un ossimoro. In passato avevi già lavorato con un altro attore, Josef Bierbichler, in Bierbichler

Non sono particolarmente interessata agli attori, il fatto che abbia seguito più volte le loro vite è stato solo casuale. Loro due hanno una cosa in comune, entrambi hanno un passato molto forte e insolito. Non sono  attori ordinari e hanno una personalità decisa. Ovviamente è una fortuna quando i protagonisti dei tuoi documentari hanno un’ ”aura” come la loro. Allo stesso tempo, però, può essere un problema, non sai mai se stanno recitando o no.

Nel caso di Josef Bierbichler mi interessava rispondere a una domanda specifica: «Come ha fatto il figlio di un contadino a diventare un artista? In che modo si è avvicinato all’arte?»

Invece per Adriana il mio punto di partenza riguardava più il rapporto che abbiamo coi nostri genitori. In che modo siamo influenzati e guidati, o addirittura “perseguitati”, da loro? Anche quando cresciamo e creiamo una nostra famiglia, quali altri compiti dobbiamo svolgere per soddisfarli e onorarli?

 

Tornando al film, quali sono state le fasi di produzione?

Prima di tutto ho fatto delle ricerche, sono andata in Croazia ecc. Poi ho scritto una scaletta, che è sempre molto difficile per una filmmaker di documentari: non si può inventare la realtà…

Il viaggio è durato tre settimane, ma ho ripreso Adriana anche a Berlino, dove vive con suo marito e i suoi due figli, durante i suoi diversi lavori a teatro o all’opera. La fase di montaggio è stata lunghissima, ci sono voluti ben nove mesi! È stato molto difficile condensare la vita di Adriana in soli 90 minuti, c’erano molti aspetti su cui intervenire, da quelli personali a quelli storici. Ma questa è un’esperienza che condivido con ogni documentarista: il film viene creato in cabina di montaggio, e non con la sceneggiatura. 

 

C’è un momento speciale del viaggio che vorresti dividere con noi?

Quello più intenso è sicuramente la visita all’ex campo di concentramento di Arbe. Forse in quell’istante si può intuire che io e lei siamo molto legate. La sera prima della nostra visita al lager mi disse: «Domani avrò bisogno di te come un’amica, non come regista». Capii immediatamente e dissi al direttore della fotografia di girare quelle scene come meglio credeva. Non avrei pensato alle luci, alle angolazioni, alla risoluzione, a nessuna di queste cose. Credo che se Adriana non mi avesse chiesto esplicitamente un po’di supporto, la visita non sarebbe stata così sentita ed emozionante.

 

In Italia e nel resto del mondo le donne continuano a essere discriminate sul posto di lavoro e a essere pagate meno degli uomini. Esiste la discriminazione nel mondo del cinema? Hai mai dovuto affrontare situazioni spiacevoli?

Ogni volta do uno sguardo ai programmi dei festival internazionali come quello di Cannes o di Berlino in cerca di registe donne e ogni volta mi sento frustrata per la povera presenza femminile. 

È un problema anche in Germania, per questo le registe hanno fondato “Pro Quote Regie”, un’associazione volta a combattere in favore di una maggiore partecipazione delle donne nel business cinematografico. L’85% dei lavori cinematografici è in mano agli uomini, ma il 45% degli studenti di cinema è costituito da donne. Quindi sicuramente “Pro Quote” ha il mio supporto totale. 

Io personalmente non mi sono mai sentita discriminata, ma forse è solo perché non si può paragonare il documentario alla fiction. Infatti il business cinematografico tedesco è molto maschile, ma i documentari sono realizzati spesso da donne, forse perché sono richiesti alcuni tra i loro migliori talenti: non sprecare i soldi (perché i budget sono molto bassi), avvicinarsi ai protagonisti in maniera psicologicamente sensibile, lavorare con un piccolo gruppo di persone e fare più lavori in una volta…

Ho un buon rapporto di fiducia con il mio produttore e le mie “commissioning editors” (coloro che si occupano di vendere i film alle televisioni, ndr). Ma forse è solo fortuna.

 

*Foto di X Verleih (Warner)

Articoli recenti

Daily