IL (MIO) CINEMA NASCE DALL’OPPOSIZIONE AL SISTEMA 

IL (MIO) CINEMA NASCE DALL’OPPOSIZIONE AL SISTEMA 
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Abbiamo incontrato Lech Kowalski, protagonista della retrospettiva di Filmmaker 2014, cineasta ribelle, poeta di marginalità e resistenze

 

Artista outsider e radicale, Lech Kowalski è un regista apolide e ramingo, alla ricerca di contrasti nella società da filmare con vitalità e passione. Americano di origini polacche, Kowalski è diventato da subito autore di culto nel mondo del documentario grazie alla sua trilogia sul punk a New York (D.O.A., Born to loseeHeyIs Dee Dee Home). Anarchico nel suo percorso, ha documentato la lotta per la vita degli homeless di Manhattan, di un gruppo di punk a Cracovia e il viaggio lungo l’autostrada costruita da Hitler in Polonia. East of Paradise, il suo film forse più noto, è un dittico sulla sopravvivenza che lega la storia della deportazione della madre nei gulag staliniani e la carriera del regista fra le strade e la droga della Grande Mela.Filmmaker propone l’opera di Kowalski come importante stimolo per gli autori di domani, un cinema che semina idee per altro cinema, indipendente e combattivo.

 

Che cosa voleva dire essere un outsider nella New York degli anni Settanta?

Sono arrivato in città in quegli anni, e per comprendere New York e quello che fu il fenomeno punk va spiegato tutto il contesto: la cosa più importante che stava succedendo era la guerra del Vietnam che andava avanti da prima di Kennedy. Io come tutti i ragazzi che poi sono diventati punk guardavo i report su quella guerra brutale che ha distrutto l’America. Era un periodo estremamente violento: c’era stato il caso dei quattro studenti uccisi dalla guardia nazionale alla Kent State University (protestavano pacificamente contro la guerra, era il 1970, ndr), c’era Muhammad Alì e il movimento per i diritti civili degli afro-americani e per gli omosessuali; la scena artistica era particolarmente vivace nonostante una grossa crisi che si era abbattuta su New York. Era anche l’inizio del periodo della Disco, gli anni della rivoluzione sessuale, c’erano club dove si facevano orge e le sale porno si moltiplicavano: erano gli anni di Gola profonda. La guerra in Vietnam alimentava il mercato dell’eroina: gente da Long Island o dal New Jersey veniva nel Lower East Side per comprare la droga. Un sacco di cose stavano succedendo e il punk era in mezzo a tutto questo: un fenomeno fortemente newyorkese rispetto al resto degli Stati Uniti, un piccolo gruppo di persone che volevano ribellarsi, cambiare la società attraverso un rock più incisivo e con pezzi più brevi.

 

Che cosa ti affascinava allora dell’ambiente punk?

Ero interessato soprattutto alla loro estetica. Mi piacevano i loro gruppi, il suono della loro musica: allora il fenomeno non si definiva ancora punk e nessuno andava in giro con i capelli blu come è diventato di moda in seguito, ma c’era una nuova energia. I Sex Pistols erano grandiosi, stavano creando davvero qualcosa di nuovo. Quattro o cinque anni dopo le riprese della loro tournée nel sud degli Stati Uniti, filmai a Londra Sid Vicious e la sua compagna Nancy. Nel frattempo il gruppo si era sciolto, c’era in loro una sorta di consapevolezza della fine, la stagione del punk si stava chiudendo. Quell’intervista ha fotografato un momento davvero particolare, nessuno sapeva quello che sarebbe successo, si avvertiva una mancanza di direzione, un momento buio per colpa dell’eroina e della mancanza di soldi. Un momento però d’intensa bellezza perché davanti alla macchina da presa ci sono due persone genuine in lotta con la vita. Ma non c’era solo il punk per me in quel periodo: filmavo anche materiale per un film sul cinema porno (Sex Stars, andato poi perduto, ndr). In più c’è stato il jazz e la nascita del cinema underground. Tutto questo prevalentemente a Downtown, sotto la 23esima.A New York a quel tempo si radunavano tutti gli outsider perché lì si potevano sentire a loro agio: ho trovato una famiglia fra loro, è in ambienti come quello che si trovano le condizioni per inventare e creare qualcosa.

 

Quando hai capito di voler diventare un filmmaker?

Ho iniziato a girare al liceo un film in Super8 in cui dei ragazzini fumavano erba. Una volta concluse le riprese dovevo passare al montaggio, del quale non sapevo nulla. Tagliavo la pellicola con la lametta del rasoio unendo i due nastri con lo scotch. Attaccando due pezzi a una finestra ho avuto questo stupido momento rivelatorio della mia vita: una delle due pellicole era capovolta, e ho pensato: «Wow, questa scena potrebbe essere tutta capovolta!». E ho capito che non solo potevo fare quello, ma anche moltissime altre cose, infinite possibilità artistiche da scoprire, rispetto ai perfetti film hollywoodiani cui ero abituato.

 

Orson Welles diceva che per essere creativo un regista deve mettersi in situazioni scomode: sembra che tu abbia preso alla lettera questo consiglio.

È una questione molto importante: per arrivare a un buon risultato bisogna superare molti ostacoli, superare resistenze, spesso senza permesso. Succede sempre, quando cerco fondi per il film, che i produttori vogliano sapere se i soldi sono ben investiti. Chiedono un soggetto, magari una sceneggiatura con i dettagli delle riprese. È un problema noioso perché l’unica cosa che so quando sto per girare un film è che troverò qualcosa di interessante e che voglio esserne sorpreso. Non voglio riprendere qualcosa che mi farà felice o per la quale sarò elogiato. Questo scarto tra il mio modo di procedere e le richieste del mercato in realtà mi rende sempre più creativo. Significa lanciarsi ogni volta in una sorta di buio, di oscurità e incertezza, ma è proprio da questa frizione che si crea qualcosa di interessante.Sono un artista visivo, lavoro con le immagini e quando vedo persone tristi, o felici, gente che si droga o gente che fa sesso, ecco, le loro vite sono interessanti come materia di studio. Cerco l’opposto del ricercato, il contrario del sofisticato. Una cosa è interessante quando è primitiva, originaria, nella sua essenza più genuina. Anche situazioni folli come può essere una semplice famiglia a tavola mentre litiga per il cibo. Non a caso il mio cinema preferito è quello neorealista italiano: una realtà ultima, senza illusioni né menzogne.

 

A proposito di menzogne: in East of Paradise si dice che la vita è una bugia costruita dal potere.

Da un lato c’è la storia ufficiale costruita dalle strutture del potere che vogliono che le cose siano viste da un certo punto di vista. Dall’altro c’è la storia non ufficiale, la storia che nessuno davvero conosce, perché è la storia fatta dalla gente che vive la propria vita. La bugia è insita nella scrittura dei libri di storia. La storia ufficiale è solo propaganda.

 

Nel raccontare questa storia non ufficiale hai incontrato più spesso la bellezza o la mostruosità del mondo?

Nessuno cerca la mostruosità esplicitamente. Si tratta piuttosto di quella sorta di eccitamento che provo quando trovo qualcosa di davvero primario. Siano situazioni felici o strazianti, persone in lotta per qualcosa o in pace con se stesse, l’importante è che siano in connessione con quel momento che stanno vivendo. Come filmmaker in quel momento devo essere con loro, seguirli e filmarli. Una volta spenta la camera non so cosa sia successo, che cosa davvero ho documentato finché non si va in sala di montaggio a sistemare le cose secondo un punto di vista estetico, che è ciò che conta alla fine. È simile al processo dell’attore che, indipendentemente dal ruolo oscuro o gioioso che deve recitare, trova un momento di realtà con cui connettersi al personaggio, e quando è in quel luogo finalmente si può esprimere. In quel momento si trova la bellezza dell’esistenza, dove non c’è definizione: al montaggio cerco quindi di mettere assieme i momenti migliori, anche entrando in contrasto a volte con la costruzione della storia che avevo in mente.

 

Hai filmato conflitti in molti luoghi del mondo e che hanno caratterizzato epoche diverse. Quali sono quelli che riguardano questa generazione?

Vorrei filmare in Messico una storia che credo sia veramente importante. La storia di come la gente sopravvive in situazioni di estrema povertà; i protagonisti diventano criminali, ma combattono e resistono al sistema, ed è proprio questa opposizione che mi incuriosisce. La ragione per cui filmo in Messico è perché non vedo questa resistenza in troppi posti nel mondo, specialmente nei giovani. Il mondo, da sistema d’impresa qual è, ci ha resi consumatori e non più cittadini: compriamo cultura e tutto quello di cui si può aver bisogno, senza più creare nulla di nuovo. Io credo sia importante creare qualcosa, ma non mi sembra che questo stia accadendo. È come se fossimo tutti in attesa.

 

The Boot Factory di Lech Kowalski, mar 2 dicembre, ore 17.00, Cinema Palestrina

Charlie Chaplin in Kabul di Lech Kowalski, mer 3 dicembre, ore 19.30, Cinema Arcobaleno, Sala 100

Breakdance Test di Lech Kowalski, mer 3 dicembre, ore 19.30, Cinema Arcobaleno, Sala 100

Holy Field Holy War di Lech Kowalski, gio 4 dicembre, ore 19.30, Cinema Arcobaleno, Sala 100

Rock Soup di Lech Kowalski, ven 5 dicembre, ore 16.00, Spazio Oberdan

D.O.A. (A rite of passage) di Lech Kowalski, ven 5 dicembre, ore 22.00, Spazio Oberdan

On Hitler's Highway di Lech Kowalski, sab 6 dicembre, ore 17.00, Spazio Oberdan

Winners & Loosers di Lech Kowalski, dom 7 dicembre, ore 15.00, Spazio Oberdan

Camera Gun di Lech Kowalski, dom 7 dicembre, ore 19.00, Spazio Oberdan

Hey! Is Dee Dee Home? di Lech Kowalski, dom 7 dicembre, ore 19.00, Spazio Oberdan

Camera War di Lech Kowalski, lun 8 dicembre, ore 15.00, Spazio Oberdan

 

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