CLASSICI D’AFRICA

CLASSICI D’AFRICA
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Il critico Giuseppe Gariazzo, esperto di cinema africano e selezionatore del FCAAAL e della SIC veneziana, ci parla della sezione speciale Classici Africani, della prossima masterclass con Sissako e dei gioielli cinematografici del passato eppure attualissimi

 

«È importante poter continuare a vedere i film africani dei decenni scorsi perché è l'unico modo per riuscire a capire il cinema che si fa ai giorni nostri in quei luoghi.». Con poche battute, il critico Giuseppe Gariazzo ci introduce in una realtà cinematografica spesso poco conosciuta o dimenticata. Con lui parliamo dei film presentati al FCAAAL nella strepitosa sezione Classici Africani nelle versioni restaurate dalla Cineteca di Bologna e dal World Cinema Project promosso da Martin Scorsese.

 

Che cosa vedremo nella sezione speciale Classici Africani?

Si tratta di sei film - quattro lungometraggi e due cortometraggi - che hanno fatto la storia del cinema africano e che oggi è possibile vedere in condizioni ottimali grazie all'operazione di restauro promossa dal World Cinema Project di Martin Scorsese. Come back, Africa non è diretto da un regista sudafricano ma è di Lionel Rogosin, un filmmaker newyorkese che proveniva da un contesto come quello del New American Cinema e che volle raccontare la situazione del popolo sudafricano durante l'Apartheid. In più, mostra la cantante e attivista Miriam Makeba, la quale ha un ruolo piuttosto rilevante nella vicenda. Un lavoro memore dell'esperienza neorealista e girato in clandestinità. Al Momia di Shadi Abdel Salam e Touki Bouki di Djibril Diop Mambéty, invece, sono unici nel panorama dell'epoca perché innovativi rispetto al cinema dei rispettivi paesi e inestricabili dalle poetiche personali dei due autori. 

 

Touki Bouki fu presentato a Cannes!

Sì, e fu riconosciuto subito per il suo immenso valore. Le novità proposte da Mambéty sul piano del linguaggio e la forza politica dei contenuti - che richiamano i modelli Nouvelle Vague, non solo francesi, dell'epoca subito precedente - rappresentano un momento davvero significativo dell'avanguardia cinematografica dell'Africa nera. Tutti abbiamo citato Godard nel parlare di questo film, perché è inevitabile trovare la stessa vitalità e la stessa consapevolezza teorica anche in questo gioiello senegalese ancora attualissimo.

 

Al Momia può essere definito un film “popolare”?

Non direi. Salam - il quale, forse non a caso, aveva conosciuto Rossellini quando questi era stato in Egitto per preparare un episodio del televisivo La lotta dell'uomo per la sopravvivenza - realizzò una pellicola distante da quelle più popolari, spesso di genere, cui il pubblico egiziano era da sempre abituato. È un'opera profondamente legata alla storia del suo paese e coerente alle ricerche che l'autore aveva fatto - già nel cortometraggio in costume The Eloquent Peasant, che al nostro Festival precederà Al Momia in proiezione - sull'Antico Egitto e in particolare sulla composizione di inquadrature che valorizzassero la presenza architettonica delle piramidi. E in tutti gli ambienti da lui scelti per le riprese, tra cui le stesse piramidi, Salam costruiva l'immaginario del suo cinema.

 

Mi dice qualcosa di più su Transes

Il film di Ahmed El Maanouni si inserisce in un'epoca a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, caratterizzata da un rapporto più intimo con la musica. Scorsese, che nel 1978 aveva raccolto la sfida di raccontare il gruppo The Band nel film concerto L'ultimo valzer, deve aver apprezzato molto quel modo così diverso di rapportarsi alla musica dal vivo. Ma lo stesso discorso può valere per Jonathan Demme con i Talking Heads. A ogni modo, non è un caso se Scorsese, qualche anno più tardi, userà un brano del gruppo protagonista del film marocchino per la colonna sonora de L'ultima tentazione di Cristo. Anche con Transes siamo di fronte a un film unico nel panorama africano almeno sino a oggi.

 

Che ruolo ha Borom Sarret  di Sembène Ousmane?

Lo proiettiamo prima di Touki Bouki perché insieme rispecchiano perfettamente lo stato del cinema senegalese dell'epoca. Sembène era un letterato iscritto al partito comunista e aveva vissuto all'estero per molti anni. Quando si rese conto che la scrittura non poteva raggiungere abbastanza pubblico a causa dell'elevata analfabetizzazione dei suoi connazionali, decise di passare al cinema. Il cortometraggio racconta di un giovane che per vivere trasporta persone e merci su un carretto tirato da un mulo e che un giorno entra in una zona della città a lui preclusa e per questo perde il suo carretto. Una storia molto semplice, essenziale, che sa di neorealismo, raccontata con efficacia estrema.

 

Come ha avuto inizio il suo rapporto con questo (ma dovremmo dire “questi”) cinema?

È sempre utile ricordare che non c'è un solo cinema in Africa, ma molti cinema e che non è mai semplice né corretto fare delle valutazioni del fenomeno complessivo. A ogni modo, negli anni Ottanta ebbi la possibilità di vedere alcuni film in una splendida retrospettiva sul cinema africano nella sala d'essai del King Kong di Torino, che adesso non esiste più. In seguito, quando nacque il festival milanese, partecipai prima come spettatore e giornalista poi come parte dello staff e così ancora oggi. Prima ancora esistevano le Giornate del cinema africano a Perugia, contesto nel quale conobbi un giovane e sorprendente Abderrahmane Sissako. 

 

Il regista mauritano - candidato all'Oscar per il Miglior Film Straniero nel 2015 con Timbuktu e vincitore di 7 premi César - incontrerà il pubblico in una Masterclass condotta da lei sabato 9 maggio. Cosa ci può anticipare?

Tra gli elementi ricorrenti nel cinema di Sissako è importante ricordare il deserto, nella sua accezione sì ambientale ma anche e soprattutto filosofica. In più, ogni suo film mostra scorci da diversi luoghi nel mondo, da Mosca a Parigi a Timbuktu. È veramente un cinema dell'esilio, del viaggio continuo e del desiderio di continuare a muoversi per conoscere. È un grande cinema della conoscenza, innanzitutto delle persone. Ogni suo film - che sia documentario o di finzione, un lungometraggio o un corto - esprime davvero questa urgenza di andare a cercare l'altro da sé e di vedere nell'altro uno specchio, di mettere in gioco la propria esperienza di fronte ad altre culture, altre tradizioni, per crescere e condividere. Ecco, dall'incontro di sabato mi aspetto una chiacchierata - un confronto nel senso più costruttivo del termine - e che i presenti possano fare domande e dire la loro sugli argomenti trattati. Più che altrove, mi auguro che tutto ciò accada proprio parlando di un cinema attento al dialogo come quello di Sissako. 

 

Come pensa sia cambiato il cinema del continente africano nell'ultimo ventennio?

L'epoca d'oro fu sicuramente quella degli anni Settanta e Ottanta, quando molte di queste cinematografie mostrarono il paradosso di una doppia anima: consapevole della storia del cinema mondiale ma indubbiamente pionieristica. Dagli anni Novanta a oggi la qualità complessiva è un po’ calata, forse a causa dell'influenza sempre maggiore del cinema occidentale e in particolare della presenza produttiva francese in alcuni territori, nonostante non manchino registi interessanti e capaci di richiamare l'attenzione dei festival internazionali e del pubblico di tutto il mondo. In particolare, si distingue il cinema tunisino nel quale trovano spazio anche diverse voci femminili. Mentre è interessante constatare come il Ciad e la Mauritania siano tra i paesi meno attivi in campo cinematografico quando due autori noti a livello internazionale come Mahamat Saleh Haroun e lo stesso Sissako provengono proprio da lì. Poi ci sono vere e proprie sorprese: ad esempio, quest'anno in concorso abbiamo un lungometraggio prodotto nell'isola di Mauritius (Lonbraz Kann, nda), realizzato con mezzi poveri e non privo di una certa (in senso buono) ingenuità. 

 

I classici africani proiettati all’Auditorium del MUDEC:

Come Back, Africa di Lionel Rogosin, giovedì 7 maggio, ore 19.30

El-Fallâh el-fasîh – The Eloquent Peasant e Al momia – The Night of the Counting Years di Shadi Abdel Salam, venerdì 8 maggio, ore 19.30

Borom Sarret di Sembène Ousmane e Touki Bouki di Djibril Diop Mambéty, sabato 9 maggio, ore 19.30

Transes di Ahmed El Maanouni, domenica 10, ore 19.30

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