Intervistiamo Christian Braad Thomsen, giurato del concorso e autore del documentario Fassbinder – To Love Without Demands. Oggi il regista danese terrà una masterclass gratuita all'Università degli Studi di Milano
Storico del cinema e scrittore, Thomsen è stato soprattutto un amico devoto di Rainer Werner Fassbinder, il più acuto e radicale dei registi del Nuovo cinema tedesco, tragicamente scomparso a soli 37 anni nel 1982. Autoprodotto e presentato all’ultima Berlinale, Fassbinder – To Love Without Demands è un ritratto appassionato e coinvolgente. Attraverso le testimonianze di amici cari e familiari, la vita del controverso regista di Querelle de Brest e L’amore è più freddo della morte, viene messa a nudo.
Thomsen mostra per la prima volta i filmati di un’intervista inedita, in una camera d’hotel a Cannes nel 1978. Fassbinder è stravolto, con le occhiaie in evidenza e con un whisky in mano. L’intimità con cui Thomsen ci mostra Fassbinder non sfocia mai in sentimentalismi e regala lucidissimi momenti personali del regista tedesco.
Come ha conosciuto Fassbinder?
L’ho conosciuto durante il Festival di Berlino nel 1969. Stava presentando il suo primo film: L’amore è più freddo della morte, fischiato dal pubblico e stroncato dalla maggior parte della critica. L’ho amato proprio per il fatto che in un’epoca in cui il linguaggio filmico veniva volgarizzato dalle logiche dell’industria cinematografica, Fassbinder ha cercato di creare un punto di rottura, inventando un nuovo linguaggio. Qualche giorno dopo la première lo vidi seduto da solo a bersi una birra. Aveva solo 24 anni e ho pensato avesse bisogno di una parola di conforto, considerando come era stato stroncato il suo film, così mi sono avvicinato e gli ho espresso il mio entusiasmo per l’opera. Non gliene fregava nulla, né della critica che ha odiato il suo film, né di un danese sconosciuto che invece lo ha adorato. Era sicuro di essere sulla buona strada, sapeva già cosa sarebbe successo nei successivi 13 anni, che avrebbe creato una nuova Hollywood a Monaco.
Raccontami di quel giorno in cui l’hai intervistato in una camera d’albergo a Cannes. Quelle immagini fanno parte del materiale inedito presente nel documentario.
Stava bevendo whisky e quando abbiamo fatto una pausa per cambiare la pellicola, è andato in bagno a sniffare cocaina. Era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Mi sono sentito molto a disagio e forse è per questo che per 30 anni non ho avuto il coraggio di rivedere l’intervista. Poi ho mandato una copia al mio grande amico Robert Fischer, filmmaker tedesco e storico del cinema e mi ha convinto a guardarlo. Sono rimasto profondamente scosso da quelle immagini, ma allo stesso tempo ho realizzato di non aver mai visto Fassbinder così nudo, onesto e sincero. Anche sotto effetto di stupefacenti sapeva esattamente cosa dire. Quando era “fatto” si sentiva più concentrato e per questo quasi tutte le sue sceneggiature le ha scritte in quello stato.
Perché hai deciso di diffondere solo ora quest’intervista così intima?
Ho avuto bisogno di tutto questo tempo per capire come fare il film. Volevo fare un’opera sull’amore, perché ho amato Fassbinder più di chiunque altro, pur non essendo omosessuale. Volevo capire cosa fosse questo sentimento così forte. Forse, grazie a questo documentario, mi sono avvicinato al mio obiettivo, scoprendo che l’amore è un sentimento genuino e infantile. Quando Fassbinder era in vita era un padre per tutti noi. Dopo la sua morte ho capito che allo stesso tempo era anche nostro figlio e i figli si amano incondizionatamente e nel modo più profondo possibile, oltre la morte.
Sono molti gli aspetti psicologici affrontati nel documentario, diviso per capitoli. Dal rapporto ambiguo con la madre, al paradiso perduto di un’infanzia vissuta in totale libertà, ai sensi di colpa della Germania dopo il conflitto mondiale.
Il film è stato una sorta di seduta dall’analista anche per me. Fassbinder ammirava il lavoro di Sigmund Freud, perciò mi è venuto spontaneo cercare di analizzarlo attraverso le teorie dello psicanalista austriaco, soprattutto dalla prospettiva del complesso edipico, ovvero quando l’amore diventa più freddo della morte.
Quanto ha influito Fassbinder nella tua carriera e nella tua vita?
Se ha influenzato il mio lavoro, vorrebbe dire che non ho capito nulla di lui. Odiava tutto ciò che rappresentava l’autorità: genitori, insegnanti, polizia, politici… E lui stesso non voleva assolutamente diventare un modello o un maestro. Voleva che tutti fossero in grado di trovare se stessi, la propria strada e il proprio linguaggio. Una cosa molto difficile nell’industria cinematografica, soprattutto oggi, che è ancora più corrotta e orientata al profitto.
Il film è stato autoprodotto.
Il Danish Film Institute si è rifiutato di finanziarlo. Ho realizzato il documentario senza un soldo e tra difficoltà immense. È stato possibile solo grazie all’aiuto di amici e colleghi con cui ho sempre lavorato e che hanno accettato di collaborare gratuitamente per la realizzazione del film. Al momento sono stato invitato a presentarlo in 53 festival internazionali, mai successo a un film danese! Nonostante questo il Film Institute continua a non volerci dare un sostegno economico. È un circolo vizioso, perché il Film Institute è un’organizzazione governativa che dovrebbe promuovere e supportare l’arte, la cultura e il cinema, ma purtroppo non è così.
Conoscevi già il MFF? Come ti sei preparato per la tua veste di giurato?
Non conoscevo il MFF prima, ma non vedo l’ora di partecipare e di essere a Milano, anche perché i vini rossi italiani sono i miei preferiti.
Hai consigli per i giovani filmmaker che decidono di intraprendere questa carriera?
L’unico consiglio che mi sento di dare ai giovani è quello che ho imparato da Fassbinder: essere se stessi anche dentro a un’industria, come quella del cinema, che non te lo permette.
Ripensando all’inizio professionale tragico di Fassbinder (Berlino 1969), quanto è importante il giudizio della critica o la reazione del pubblico per valutare un buon film?
Non puoi mai fidarti del pubblico e men che meno dei critici. Anche se qualche buon critico in giro per il mondo c’è. Ma chi ha il coraggio dei 24 anni di Fassbinder che, dopo l’insuccesso del primo film, disse che i critici di Berlino erano provinciali e la loro critica in realtà era una lode?
Masterclass gratuita su R.W. Fassbinder di Braad Thomsen, oggi alle 15.00, aula 221 dell'Università degli Studi di Milano (incontro in lingua inglese)
Fassbinder – To Love Without Demands di Christian Braad Thomsen, The Outsiders, stasera, ore 21.00, Spazio Oberdan