IL TEMPO SOSPESO: DENTRO E FUORI DAI CIE

IL TEMPO SOSPESO: DENTRO E FUORI DAI CIE
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Il regista Matteo Calore ci racconta il suo ultimo documentario, Limbo, realizzato insieme a Gustav Hofer e pensato con Andrea Segre, per mostrare un luogo simbolo delle politiche migratorie italiane

 

L’acronimo CIE sta per Centri di Identificazione ed Espulsione e indica quei luoghi dove vengono trattenuti cittadini non provenienti dai paesi U.E., trovati privi di permesso di soggiorno dalle forze dell’ordine. Il tempo di permanenza in questi centri può durare fino a 18 mesi e si configura come un lungo ed estenuante periodo di attesa sia per i “detenuti”, sia per le famiglie che aspettano di conoscere la sorte dei propri cari. Limbo, in concorso nella competizione Extr’A nel FCAAAL, descrive questo tempo sospeso, attraverso quattro storie dentro e fuori dai centri. Ne abbiamo parlato con Matteo Calore regista di questo documentario.

 

Limbo è un documentario realizzato a quattro mani, da te e da Gustav Hofer, ma che ha visto anche la partecipazione ideativa di Andrea Segre. Come nasce l’idea di realizzare questo lavoro?

Limbo fa parte di un percorso iniziato 10 anni fa da Zalab (associazione per la produzione, distribuzione e promozione di documentari sociali e progetti culturali ndr) per raccontare le migrazioni. I CIE sono per noi un simbolo emblematico della gestione delle migrazioni da parte dell’Italia e dell’Unione Europea. Volevamo però mostrarli da un nuovo punto di vista che non fosse quello dell’inchiesta giornalistica, ma da una prospettiva più umana. Così Andrea ci ha suggerito di contattare le famiglie che per mesi attendono il ritorno di padri, mariti e fidanzati detenuti nei CIE. Questo avrebbe reso più drammatico il limbo - tempo dell’attesa -  aprendo il documentario a quella parte di pubblico che non conosce la realtà dei centri di detenzione. 

 

In che modo hai lavorato con Gustav Hofer? Come nasce la vostra collaborazione?

Quando abbiamo ottenuto i fondi per la realizzazione di questo documentario sia io che Andrea Segre eravamo già impegnati in altri progetti e cercavamo qualcuno che potesse collaborare con noi. Conoscevo già Gustav e così abbiamo iniziato a lavorare insieme, dividendoci i compiti: lui, essendo giornalista e potendo accedere più facilmente nei CIE avrebbe operato all’interno, mentre io mi sarei occupato delle famiglie. 

 

Grazie alla prima campagna LasciateCIEntrare nel 2011 è stata abrogata la circolare che vietava l’accesso degli organi di stampa nei CIE. Avete avuto problemi per ottenere i permessi?

Teoricamente l’accesso è libero, ma la procedura per ottenere il permesso è lenta e i tempi di attesa molto lunghi: fai una prima domanda e, molto spesso, non ottieni risposta, allora inoltri una seconda, una terza, una quarta richiesta e a quel punto ottieni un permesso, ma con molte restrizioni. Per questo, abbiamo deciso di appoggiarci a una delegazione parlamentare, che ci ha permesso di entrare più facilmente. 

 

Le storie raccontate nel documentario sono quattro. In che modo avete scelto proprio queste, tra le tante?

Dovevamo trovare uomini che avessero una famiglia ad aspettarli fuori dalle mura dei CIE, disposta a condividere la propria storia. Raccontare la storia di qualcuno significa poi avere del tempo per poter intrecciare con lui una relazione. Questo è stato per noi molto difficile, avendo a disposizione non più di sei ore da passare nei centri. Da ultimo, i detenuti hanno un’urgenza di racconto molto forte, perché cercano qualsiasi mezzo per difendersi e uscire. Molto spesso, una volta fuori, la loro situazione legale non è ancora risolta, si trovano a vivere in situazioni di marginalità sociale e di paura. Per questo alcuni di loro hanno chiesto di non comparire nel documentario. Ecco come, da nove, dieci storie raccolte, siamo arrivati alle quattro finali. 

 

E com’è stato invece lavorare insieme alle famiglie? 

Anche questo è stato un lavoro lungo e delicato. Prima di tirare fuori la telecamera devi creare una relazione di fiducia, che permetta una condivisione del racconto e si inserisca in una dimensione di scambio. Tre delle quattro storie sono state seguite nel loro divenire, mentre quella di Peter e Cynthia, la coppia nigeriana, è stata rimessa in scena attraverso un processo di ricostruzione, che ha fatto della mongolfiera sospesa, l’immagine simbolo della loro storia.

 

Nel documentario viene affrontato anche il tema delle proteste dei detenuti, dagli episodi di autolesionismo, agli incendi che talvolta hanno portato alla chiusura degli stessi CIE. Da dove nascono questi gesti estremi?

Più che di una presa di coscienza, si tratta di gesti di disperazione dovuti alla mancanza totale di prospettive e all’incomprensione delle ragioni per cui si trovano rinchiusi nei centri. Non hanno commesso alcun reato e considerano la loro condizione come una forma illegale di detenzione. Inoltre, quando dopo settimane di attesa,  percepiscono il rischio dell’espulsione alcuni compiono gesti di autolesionismo per evitare il rimpatrio. Ho conosciuto un ragazzo russo che è uscito dal CIE quasi in fin di vita, in seguito a uno sciopero della fame molto duro; è stato lasciato in ospedale con un foglio di via e ancora non ha risolto la sua situazione. 

 

Nel corso degli anni i CIE si sono dimostrati inefficaci, costosi a livello di spese pubbliche e luoghi di violazione dei diritti umani. Quale è, secondo te, l’idea “politica” che sta dietro alla volontà di non chiuderli?

Sono inefficaci perché solo l’1% degli immigrati irregolari passa dai CIE e di questi solo il 50% viene espulso. Eppure, come dicevo all’inizio, questi centri sono simboli di un atteggiamento più generale. Nascondono interessi economici e al contempo rappresentano una soluzione mediatica molto forte. Anche in questi giorni, in seguito agli ultimi sbarchi, si sta parlando dell’apertura di un nuovo CIE in Toscana, disegnandola come una soluzione al problema e alla possibilità del rimpatrio. 

 

Limbo è parte del progetto Sospesi nel Limbo con il quale state attraversando l’Italia da Nord a Sud per promuovere la campagna #MAIPIUCIE. Come sono state le prime tappe di questo viaggio? Quali le reazioni del pubblico?

Si tratta di un viaggio iniziato da poco e, in un certo senso, ancora in itinere. Abbiamo visto reazioni molto diverse. A Padova, ad esempio, c’è stata una grande partecipazione, si sono uniti a noi artisti di strada e giocolieri; a Torino abbiamo collaborato e collaboreremo ancora con l’ex MOI, un gruppo di 850 persone di 26 nazionalità diverse che hanno occupato le ex palazzine olimpiche, trasformandole in alloggi per rifugiati. Questa settimana saremo a Milano, all’interno del FCAAAL. Alla proiezione del documentario venerdì 8  maggio (ore 21.00, Cinema Betrade, nda), saranno presenti anche due dei protagonisti delle storie raccontate. Presenteremo poi la campagna #MAIPIUCIE insieme ad Alessandra Montesano (vice presidente Associazione per i diritti umani), sabato 9 maggio all’interno del Festival Center. 

 

Hai intenzione di continuare a lavorare nell’ambito di documentari sociali?

Dopo le ultime tragedie nel Mediterraneo, ho incontrato Andrea Segre a Torino e, da un lato, sentivamo la necessità di fare qualcosa, dall’altro provavamo la frustrazione di dieci anni di lavoro, durante i quali nulla è cambiato.  Per questo vogliamo ridare voce anche quei lavori che sono già stati fatti e impegnarci perché cambi l’atteggiamento politico di fronte alle migrazioni che non deve più essere di semplice soccorso o di protezione securitaria dell’area Schengen. Dobbiamo accettare che le persone si muovono e che si sono sempre spostate. Dobbiamo costruire forme di migrazione legale. 

 

Limbo di Matteo Calore e Gustav Hofer, stasera venerdì 8 maggio ore 21.00 e domenica 10, ore 19.00, Cinema Beltrade

 

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