ERA MIO PADRE

ERA MIO PADRE
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Life Sentences è un documentario di Nurit Kedar e Yaron Shani selezionato dal MFF per la sezione Colpe di Stato. Una storia unica, che doveva essere raccontata. Una madre ebrea e un padre arabo terrorista, Fauzi Nimer: due figli, fratello e sorella, due destini che non potevano essere più distanti. Nimer sposa sua cugina araba, mentre sua sorella diventa ultra ortodossa. La vita di Nimer è una vita spezzata, sempre in bilico tra menzogna e realtà, fatta di silenzi e non detti. La regista Nurit Kedar è ospite al festival e noi l’abbiamo intervistata.

 

 

Con una madre ebrea e un padre arabo e terrorista sembra impossibile vivere in Israele senza nascondere la propria identità.

Israele è un Paese in cui c’è un nazionalismo fortissimo. In Israele devi scegliere chi sei. Questo però credo sia un problema di sentimento di appartenenza, che ti accompagna ovunque. È dura vivere da qualche parte, qualunque essa sia, e non sentire di appartenere a quel luogo. Nimer ha scelto di vivere con la parte araba della famiglia perché è l’unica che gli ha dato amore. Sua sorella invece ha fatto una scelta opposta e per questo deve nascondere le sue radici, nessuno deve sapere chi era suo padre. Né lei né sua madre hanno voluto prendere parte al documentario, per questo a loro sono stati oscurati gli occhi.

 

 

Quindi Nimer viene percepito come arabo.

Prevalentemente sì. Ora vive ad Acca, dove convivono arabi ed ebrei, in un equilibrio fragile, che si incrina ogni volta che ci sono tensioni politiche. Ci sono quartieri separati e nello stesso edificio non convivono mai arabi e israeliani. Nimer vive in un quartiere abitato da israeliani, ma di classe bassa, ha un suo negozio di computer. Ha dovuto imparare l’arabo e non lo parla ancora molto bene. Coi suoi figli parla in inglese, mentre sua moglie parla con loro in arabo.

 

 

La moglie di Nimer è stata la sua ancora di salvezza.

È una persona eccezionale. Ha studiato per essere educatrice, ma i lavori che le vengono proposti sono troppo lontani da casa, mentre lei vuole prendersi cura dei figli. Ora sta studiando per diventare insegnante. Soprattutto, però, deve prendersi cura del marito che soffre di sindrome maniaco-depressiva.

 

 

Come sei venuta a conoscenza di questa storia?

Tutto è cominciato 15 anni fa, ho incontrato Fauzi a Gaza, stavo lavorando a un programma politico e stavo cercando qualcuno che fosse stato liberato nello scambio di prigionieri del 1985, dopo l’accordo di Jibril. Avevo letto della sua storia e l’ho cercato, finita l’intervista per cui stavo lavorando mi ha raccontato tutta la storia della sua vita. Ero incredula, era fantastico. Ha anche chiamato sua figlia, allora erano ancora in buoni rapporti, e mi ha fatto dare conferma di quanto stava dicendo.

 

 

Che genere di vita conduceva Fauzi a Gaza?

Fauzi era molto vicino a Yasser Arafat, gestiva un hotel per lui, era molto ricco. Era un membro importante del OLP. Gli arabi lo rispettavano moltissimo, tutti per strada lo fermavano. Ancora oggi è considerato un vero eroe: all’epoca delle operazione terroristiche era riuscito a architettare tutto da solo, senza un’organizzazione come l’OLP alle spalle. Inoltre all’epoca faceva il doppio gioco con i servizi segreti israeliani, cooperando con loro per trovare chi si era macchiato di quei 22 orribili attentati. Ci misero un anno a capire che era proprio lui la persona a cui stavano dando la caccia.

 

 

Perché è passato così tanto tempo da quando hai conosciuto la storia alle riprese effettive?

Nel 2000 ho inziato a girare con Fauzi a Gaza, allora le frontiere erano ancora aperte, era prima della Seconda Intifada. Ci è voluto molto tempo per convincere il figlio a raccontare la sua storia. Era confuso a quell’epoca, aveva appena avuto il primo bambino, aveva molti problemi, era fragile e isterico. All’epoca poi sua madre non gli rivolgeva la parola. Non era il momento giusto. Sua madre non voleva e non ha mai voluto parlarmi, e ho ricevuto una lettera dall’avvocato della sorella che mi diffidava dall’avvicinarmi a lei.

 

 

Alla fine però ce l’hai fatta.

Avevo sempre il film in testa, ogni tanto chiamavo Nimer per chiedere come stava, se si sentiva pronto. A un certo punto ho pensato di girare un film di finzione su questa storia, ma il produttore non era d’accordo: nessuno ci avrebbe creduto, bisognava fare un documentario. Così mi ha messo in contatto con Yaron Shani, regista di Ajami, che si è offerto di aiutarmi. Finalmente sono riuscita ad avere anche il consenso di Nimer e Yaron è stato fondamentale nelle riprese.

 

 

Come è stato accolto il film in Israele?

È stato un successo, ho vinto il primo premio al Jerusalem Film Festival quest’anno, avevo partecipato già altre volte, è stata un’emozione fortissima, ero felice come una bambina. L’accoglienza è calda dappertutto, il pubblico è commosso e toccato.

 

 

La situazione a Gaza oggi è drammatica, credi che si potrà trovare una soluzione?

No, se non si trova una soluzione politica ora, non accadrà mai. A Gaza è successo quello che era già accaduto due anni fa, e ancora prima. Gaza è una terra chiusa, i palestinesi non hanno dove andare, non possono uscire, non possono svolgere attività commerciali, non possono lavorare. Gli israeliani controllano l’approvvigionamento di elettricità e di acqua, fanno come vogliono. Ci sono colpe da tutte e due le parti, nessuno vuole rinunciare alle proprie ragioni politiche. Ma il problema è che in tutta questa storia nessuno si cura veramente delle persone.

 

 

Colpe di Stato

Life Sentences: mar 09, ore 15, Teatro Studio Melato; sab. 13, ore 21.30, Spazio Oberdan.

 

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