FILI CHE SI INTRECCIANO

FILI CHE SI INTRECCIANO
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Nei giorni in cui si svolge Filmmaker, si inaugura a Palazzo Reale Strade/Ways, la mostra/installazione realizzata da Amos Gitai nella Sala delle Cariatidi, luogo di memoria e di riflessione

 

Fotografie, sequenze di film, architettura e antichi tappeti sono i protagonisti di un viaggio espositivo multimediale che percorre il passato e futuro dell'opera del regista israeliano.

Si parte da Lullaby to my Father che Gitai dedica a suo padre, Munio Gitai Weinraub, famoso architetto e studente al Bauhaus di Dessau diretto da Gropius. Una serie di immagini tratte da Free Zone, il road-movie ambientato nella zona franca, a est della Giordania, e gli estratti di una conversazione tra Gitai e Gabriele Basilico si snodano tra le preziose opere d'arte al centro di Carpet, il suo ultimo progetto ancora inedito ma già concreto e visibile, nelle immagini dei sopralluoghi realizzate dall’autore lungo il confine turco-iraniano e in Azerbaijan. Tre sentieri che si intrecciano come i fili dei tappeti che riempiono l'imponente Sala delle Cariatidi, un luogo affascinante che ricorda, attraverso i segni dei bombardamenti, gli orrori e la follia della guerra. Infatti, le decorazioni, in parte andate distrutte, diventano per Gitai lo schermo ideale su cui installare le proiezioni per permettere agli spettatori di prendere coscienza della Storia e delle sue conseguenze. Abbiamo incontrato il regista israeliano di passaggio in città.

  

Il tappeto è da sempre un oggetto carico di forte valenza simbolica, portatore di tradizioni arcaiche. Come mai lo ha scelto come soggetto del suo prossimo film?

La passione per questa arte mi è stata trasmessa dal collezionista di tappeti Christopher Alexander, il mio insegnante di architettura durante l'università. Per me è un simbolo di cooperazione: nel passato le donne musulmane si occupavano di tessere i tappeti, quelle ebree erano esperte dei colori, mentre i cristiani si occupavano di venderli.

 

Il protagonista del film sarà un mercante di tappeti dei giorni nostri. Ha avuto un peso in questa scelta l’incontro con Moshe Tabibnia, antiquario e proprietario del prezioso tappeto del XVI secolo (nella foto) esposto in mostra?

Quando ho deciso di fare un film che avesse i tappeti e il loro mondo al centro, mi sono recato a Gerusalemme, al Museo dell'Islam, dove mi è stato detto di contattare tre persone, un piccolo gruppo che man mano si è trasformato in una rete di cui fa parte anche Moshe. Il primo esperto cui mi sono rivolto è stato l’antiquario Alberto Bovalevi e, a partire da lui, sono passato da una persona all'altra. È stato piuttosto complicato seguire le reti che si creavano e le storie dei tappeti che man mano incontravo.

 

La mostra è un percorso multimediale. Come è nata l'idea di Strade/Ways?

Visto che l'arte diventa sempre più vuota di significato, un esercizio formale di artisti-star. Il nostro compito è stato quello di cercare di ridarle un senso e mostrare la relazione tra tappeti antichi e fotografia contemporanea. Nello specifico, le fotografie che sono in mostra qui non riguardano solo le costruzioni artistiche, ma anche quelle militari, i problemi ambientali come l'inquinamento, la distruzione del paesaggio. Vorrei che lo spettatore diventasse interprete e non si limitasse a essere consumatore, sia davanti a un quadro sia durante la visione di un film.

 

Lei è un regista-narratore di luoghi, proprio come il fotografo Gabriele Basilico.

L'ho incontrato la prima volta 20 anni fa quando gli ho suggerito di fotografare il lavoro di mio padre. Mi piaceva molto il fatto che Gabriele non si occupasse di pubblicità, ma mostrasse sempre le costruzioni e il contesto, le rovine delle città, di Milano come di Beirut e di Haifa, il loro aspetto più urbano e meno bello.

 

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