What is America to me? è il focus che il MFF ha dedicato al cinema di Eugene Jarecki, regista, sceneggiatore, produttore e, non da ultimo, attivista dei diritti umani.
Abbiamo partecipato alla sua masterclass, un approfondimento sull'utilizzo dei mezzi di comunicazione in un mondo globalizzato.
«Il suo è un cinema combattente, un accumulo di dati, al cui centro troviamo testimonianze, con i quali ci consegna piccole porzioni di verità. La sua è una visione del mondo che si è raffinata nel corso del tempo». Così Paola Piacenza, curatrice della sezione Colpe di Stato, introduce Eugene Jarecki, ospite del MFF con i suoi tre documentari The House I Live In, The Trials of Henry Kissinger e Why We Fight. Durante i giorni di permanenza a Milano il regista statunitense non si è mai sottratto alle curiosità e/o perplessità degli spettatori, anzi, si è dimostrato disponibile a parlare del suo lavoro e del suo Paese.
Jarecki parte da un'analisi del mondo contemporaneo, affermando che la maggior parte delle problematiche attuali, come le questioni sulla sicurezza, l'immigrazione, le guerre, le disparità sociali sono di natura globale.
Occorre dunque interrogarsi su quali siano le modalità migliori per comunicare e far circolare le notizie. Oggi internet ha un ruolo centrale in questo senso, si possono mandare e-mail, condividere video su YouTube, inviare fotografie e ha il merito di avere unito persone anche molto distanti tra loro. Un'interconnessione che fino a qualche tempo fa era inimmaginabile.
Il regista individua quattro fasi di sviluppo dei media e del sistema dell'informazione a partire da quattro momenti storici. Una prima fase, che può essere definita “centralizzata”, con pochi attori nel mondo, ossia le grandi istituzioni monolitiche tra cui la BBC, ARTE, il cinema, ecc. tipica di regimi come il fascismo. Una seconda, detta “effetto CNN”, legata alla prima guerra del Golfo nel 1991, in cui la rete statunitense si occupava di trasmettere i video, ricevuti dal governo, per avere una copertura del conflitto in tempo reale. Visto il coinvolgimento diretto degli Usa l'informazione era manipolata. La terza, “effetto Nokia”, legata a Saddam Hussein e alla sua uccisione, il 30 dicembre 2006, ripresa con un telefonino e mostrata al mondo intero. La gestione dell'informazione in quel caso era affidata alle due reti tv contrapposte, la CNN da un lato e Al Jazeera dall'altro, entrambe non pluraliste.
L'ultima fase, “effetto YouTube”, ci rimanda agli attentati di Londra e Madrid, in cui i video girati da centinaia di cellulari hanno invaso le tv e le testate giornalistiche di tutto il mondo. Per la prima volta un attacco è stato coperto in modo pluralista.
Con la semplificazione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione e della loro accessibilità, si è infatti passati a una maggiore democrazia nell'informazione, ma dall'altro lato tutto ciò ci ha reso più controllabili, in quanto il sistema digitale non garantisce più alcuna privacy.
Siamo ormai abituati ad avere un servizio di posta virtuale, a pagare le bollette con un clic sul computer, ad accedere a biblioteche online. Tendiamo a pensare di essere più liberi, quando in realtà siamo solo più vulnerabili, ma è innegabile che questi mezzi possano fare la differenza in alcune occasioni.
In qualità di attivista politico impegnato in diverse campagne, come quella contro la guerra alla droga, Jarecki, coi suoi documentari, vuole invitare le persone ad agire.
A questo proposito ha utilizzato YouTube per far circolare un video di sensibilizzazione, consultabile nel sito del film The House I Live In, da dove è possibile mandare una lettera al Congresso americano e supportare la retroattività dell'emendamento in materia di droga attraverso un link (solo nelle prime due settimane sono state inviate 17mila mail agli uffici del Congresso).
Jarecki sottolinea poi l'importanza del linguaggio utilizzato nei video, differente a seconda che si tratti di un trailer o di un lungometraggio. «Il primo deve essere più diretto, deve raggiungere più persone possibili e deve essere chiaro fin da subito qual è il tema affrontato e qual è la mia opinione. Ha più propaganda e meno tecnica. Il discorso si ribalta quando si tratta del documentario vero e proprio. Il film deve essere costruito in modo tale che il mio pensiero arrivi dopo. La verità è soggettiva, è difficile rimanere neutrali, occorre quindi lasciare andare qualcosa e utilizzare anche il metodo della compassione per rafforzare il mio pensiero».
Alla fine di tutto questo viene da chiedersi perché Jarecki “combatte”? Why We Fight, è il titolo che ha scelto per il documentario sul business dell'industria bellica che si ispira ai film girati da Frank Capra, durante la Seconda guerra mondiale, sulle ragioni dell'entrata in guerra da parte degli Stati Uniti.
Capra ha un ruolo fondamentale nel cinema di Jarecki. «Guardo ogni anno La vita è una cosa meravigliosa. Rappresenta il modo in cui l’America spera di essere percepita: il Paese della libertà, dei sogni realizzabili, della giustizia sociale. Non sono ancora pronto a lasciare andare quella visione di America», ammette alla fine della masterclass. Ecco perché Jarecki combatte. Perché ama.
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